L’amaro che diventa dolce

Scoprendo l’altro, Francesco lo rende parte di sé

di Maria Giovanna Cereti
clarissa del Monastero di Forlì

Uscire dall’epicentro del mondo

Cereti 01Le biografie che narrano l’inizio dell’avventura cristiana di Francesco d’Assisi ne individuano la fase cruciale in un periodo di malattia (1Cel 3-4: FF 322-325) o di inquietudine esistenziale legata alla prigionia a Perugia (3Comp 4: FF 1398; 2Cel 4: FF 584): periodo tormentato punteggiato di sogni rivelatori, periodo di intensa ricerca della volontà di Dio e di purificazione per rendersi sempre più aperto e disponibile ad essa.

L’evento decisivo viene descritto come una vera e propria esperienza mistica davanti al crocifisso di San Damiano: evento luminoso e sconvolgente, in cui la voce stessa di Dio – interpellando in modo fisico Francesco – gli indicava un compito: “Va’, ripara la mia casa …”.
Ben diversa tuttavia è la narrazione che di quel passaggio fondamentale della sua esistenza viene fornita da Francesco stesso. Quasi al termine della vita, nel Testamento, egli si esprime così: “Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.” (Test 1-3: FF 110). Per Francesco dunque il momento decisivo della sua conversione, ciò che gli ha cambiato la vita, è stato la permanenza fra i lebbrosi e quell’esperienza di cura premurosa che egli indica con le parole fare con essi misericordia. Ma dunque, cosa mai gli è accaduto?
Per capirlo bisogna forse immaginare il “prima”, quello che Francesco sintetizza nell’espressione “quando ero nei peccati”: era un giovane certamente non cattivo, ma tutto centrato su di sé; desideroso di farsi strada (di “diventare cavaliere”), pronto a cogliere ogni occasione di auto-affermazione e di gratificazione che la vita e i beni di una famiglia agiata potevano offrirgli. Essere nei peccati non è tanto “fare cose cattive” o moralmente riprovevoli, ma vivere continuamente rivolto a se stesso, condizione in cui si finisce per percepirsi come il centro del mondo verso cui tutto deve dirigersi e in relazione a cui tutto viene misurato e giudicato. E in cui, come il santo dirà nell’Ammonizione II, anche il bene eventualmente fatto viene attribuito a se stesso. Ora Francesco dice: “Quando vivevo così, la sola vista dei lebbrosi mi era insopportabile”.

 Un nuovo ordine alle cose

L’incontro con i lebbrosi non è episodico: non si tratta certo di un breve momento vissuto per via. Francesco parla di un “essere stato condotto fra loro da Dio stesso”, certamente quando la sua ricerca esistenziale era già in atto. È un incontro che letteralmente sconvolge: Francesco viene dis-tratto dal suo universo auto-centrato e comincia a guardare fuori di sé. Vede i lebbrosi, questi miseri, veri e propri scarti della società e della città medievale. E ad essi fa misericordia: ovvero comincia a servirli in qualche modo, ad aver cura di loro, ma soprattutto comincia a regalare loro il suo cuore. Il movimento che accade in lui è un vero e proprio “spostamento del centro della sua esistenza, che non sarà più Francesco, ma i miseri e, tramite essi, Dio: un movimento che darà un nuovo ordine alle cose e un nuovo sapore alla realtà” (Pietro Maranesi). Fra i lebbrosi Francesco sposta l’attenzione da sé su di loro: forse per la prima volta si preoccupa dei bisogni e desideri di altri-da-sé, cercando di rispondervi con pazienza e tenerezza. “E da quell’ora smise di adorare se stesso” (3Comp 3,8: FF 1397, 1403).
Questo incontro è riletto da Francesco, in modo che può apparire sorprendente, come azione di Dio e nello stesso tempo come sua personale risposta all’iniziativa di Dio: Dio mi condusse tra loro e io usai con essi misericordia. Questo Dio, cercato nel tempo dell’inquietudine del cuore, si fa incontro non quando Francesco si dedica a esercizi di pietà in uno spazio sacro, ma quando accetta di curvarsi premuroso sulle ferite dei più abbandonati.
Ancor più sorprendente è la conseguenza potremmo dire “emotiva” che Francesco registra su di sé: “E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo”. Sarebbe riduttivo pensare a questo passaggio dall’amaro al dolce in termini ascetici: come se il punto fosse solo che Francesco ha vinto la sua istintiva ripugnanza per il contatto fisico coi lebbrosi, riportando così una vittoria sulla sua sensibilità.
In Francesco si è prodotto un nuovo modo di sentire la vita: quello che era amaro (cioè il non essere al centro del mondo) diventa dolce. Ha intuito la via del dono misericordioso di sé come modo per sperimentare la dolcezza della vita, quella stessa dolcezza che aveva tanto spesso invano cercato altrove.

Cereti 02 - San Francesco cura i lebbrosi Greccio Santuario it.wikipedia.orgLa restituzione della misericordia

Potremmo dire che Francesco ha scoperto una nuova possibilità esistenziale: quella di essere-per-altri (secondo l’espressione del filosofo Emmanuel Lévinas): è la via della carità, che è il modo di amare di Dio (appunto, la misericordia: il donare il cuore ai miseri, fatto di pazienza, premura, tenerezza). “Diventa possibile guardare il volto d’Altri: non pensarlo, e così evitarlo, bensì accoglierlo caricandolo sulle proprie spalle, sentendone il peso e quindi riconoscendolo; riconoscendo la sua fame, riconoscendo che esiste perché pesa. Essere dono, non fare doni” (Gianluca De Gennaro).
Proviamo a scendere un po’ più vicino al nostro personale vissuto: quasi sicuramente ci sono situazioni in cui facciamo a nostra volta questa esperienza dell’amaro che diventa dolce.
Accade ogni volta che amiamo qualcuno e ci diventa non solo naturale ma persino piacevole fare cose che mai avremmo pensato di poter fare; accade ogni volta che il bisogno o il desiderio dell’altro diventano così centrali per noi da darci forza per attraversare difficoltà, impossibilità, fatiche … perché il nostro sguardo non è fisso su tutto questo (che pure esiste), ma unicamente sul volto di chi amiamo o di chi ci interpella con la sua stessa presenza. Pensiamo a tante esperienze, che conosciamo, di cura e dedizione eroica a persone care in situazioni di grave fragilità (genitori, coniugi, figli, amici: malati terminali, disabili, bisognosi di tutto … miseri, se mai la parola ha un senso) vissute persino con letizia, come se colui che serve la vita nell’altro attingesse a una misteriosa sorgente zampillante di coraggio e di forza. In tutte queste situazioni c’è una costante: quello che hai di fronte non è più estraneo, è parte di te, è carne tua. E tu sei parte di lui, carne sua.
Nel fare misericordia ai lebbrosi, Francesco ha intuito anche di essere lui stesso lebbroso, e di essere amato così da Colui che “ricevette la carne della nostra umanità e fragilità”: il suo fare misericordia diventava allora restituzione della misericordia continuamente ricevuta, in Gesù Cristo, dal Padre delle misericordie.