Fra Gioacchino Massoni, il frate questuante di Imola, conosciuto in zona più del vescovo e del sindaco messi insieme, era nato nel 1915: lo ricordiamo nel centenario della nascita. Fioretto cappuccino ci parla di fra Marcellino Botticelli e delle sue prime tentazioni. Antonio Zanni traccia un bel ricordo di padre Vincenzo Succi.

Nazzareno Zanni

Come miele dalla roccia

Tributo a fra Gioacchino e alla sua sapienza di vivere 

Rubrica in Convento 01Gioacchino pane e vino

«Fratello Gioacchino, pane e vino, tu sei per noi la “buona provvidenza”, sei il granaio colmo, sei il tino,la frutta saporita sulla mensa», così cantava un confratello poeta, suo conterraneo, Agostino Venanzio Reali. Il suo sudore era sì impregnato di terra, ma egli aveva «negli occhi il cielo, nel cuore il mare». Ha arato il terreno della sua esistenza con l’aratro delle sue mani, ne ha reso fertili le zolle con la semplicità delle colombe e la prudenza dei serpenti, vi ha visto crescere teneri virgulti divenuti poi spighe mature nel campo di san Francesco, donando alla gente «pace e bene con il suo niente».


Nato per volere di Dio e della natura nell’antico borgo di Montetiffi, collocato su un cucuzzolo della prima montagna forlivese, era cresciuto nella faticosa vita di chi lavora la terra per strapparvi il pane. Ancora adolescente aveva lasciato il suo paese per farsi cappuccino a Cesena, dove “studiò” da frate laico, e, come tale, gli fu assegnato, pochi anni dopo, il lavoro di questuante nelle campagne circostanti il convento di Imola, che necessitava di braccia robuste per dare da mangiare ai fratini di quel seminario.
I frati questuanti di allora erano di due categorie: quelli di città, che dovevano presentarsi alle case sempre con abito decoroso, barba ben pettinata, linguaggio umile e dignitoso, e che tornavano in convento a mezzogiorno e alla sera, e quelli di campagna, che battevano la pianura o si arrampicavano sui monti del territorio di loro competenza, trascorrendo più giorni fuori convento; il loro saio si impregnava del profumo di stalla, dove la notte dormivano assieme al mulo che li accompagnava, i sandali risentivano del lungo camminare per strade acciottolate, la loro barba assomigliava a lana di pecora, e la loro parlata era il dialetto della gente. Frate Gioacchino era uno di questi ultimi.

 La profondità della semplicità

Quando agli inizi degli anni Trenta giunse a Imola, città che apre le porte alla Romagna, lui, che non sapeva tanto di libri di teologia, e che tuttavia parlava con la sapienza evangelica e contadina, iniziò a girare con il suo mulo e il carretto per tutte le strade della pianura e della montagna. Si presentava alle case con il povero saio cappuccino ricoperto di polvere, sapendo conquistare chi incontrava con il suo linguaggio semplice e arguto, che riusciva, senza darsi pensiero di rispettare gli schemi frateschi, a trovare la giusta risposta ai tormenti che angustiavano la gente. Una volta, coinvolto nella vicenda di una ragazza messa incinta dal suo fidanzato, bollato dalla famiglia di lei come uno “sporcaccione” e un delinquente, riuscì a ristabilire la pace tra le due famiglie con un gesto più efficace di tante parole: fattosi dare un filo di lana e facendo reggere alla madre della ragazza un grosso ago tra le dita, cercò di infilare la cruna, senza riuscirvi perché la donna non riusciva a tenere ferma la mano. Così concluse: «Se vostra figlia non fosse stata ferma…».
Allo scoppio della guerra era duro girare per le case a cercare pane per i ragazzi del seminario, ma la gente con frate Gioacchino era sempre generosa, perché lo vedeva più povero di lei. Quando poi le azioni belliche interessarono più da vicino il suo territorio di questua, sperimentò quanto fosse pericoloso camminare per le strade con la sua mula. Una volta, dopo una cerca di formaggi, mentre conduceva la mula per la cavezza, una bomba centrò l’animale, sventrandola, e lui fu scaraventato incolume nel fosso, perché la mula gli aveva fatto da scudo. Quella volta pianse, non per i formaggi distrutti, ma per la mula e non ci fu più mula che entrasse nel suo cuore come quella: «La guerra! Accidenti alla guerra!». Anche il convento non era risparmiato. Un giorno frate Gioacchino si trovò costretto a ubriacare con ben cinque bottiglie del suo vino più pregiato, “sangue del suo sangue”, un capitano tedesco con quattro soldati, venuti in convento per razziarvi le derrate alimentari nascoste in un rifugio ricavato sotto il coro dei frati: «Quando ho capito che non si ricordavano più perché erano venuti, li ho accompagnati fuori e se ne sono andati in pace». Il territorio della questua di frate Gioacchino si estendeva anche alle montagne al confine della Toscana, dove una lotta subdola contrapponeva i tedeschi ai partigiani. Una sera, dopo essere stato fermato dei soldati tedeschi alla ricerca di un gruppo di partigiani nascosti tra i boschi, ma lasciato andare per i fatti suoi come frate innocuo, raggiunse in piena notte quei giovani partigiani, che, in una casa diroccata sulla montagna, se la ridevano e vociavano allegramente, credendosi al sicuro: «Branco di disgraziati che siete. Andiamo via! Qui fuori ci sono i tedeschi!». E li condusse in salvo attraverso sentieri nel bosco che lui solo conosceva. Ma fu poi lui a trovarsi in pericolo. Quando i medesimi soldati, rimasti con un pugno di mosche in mano, lo scorsero di nuovo sulla loro strada, sospettarono, non senza ragione, che fosse stato lui ad avvisare i partigiani, e gli intimarono l’alt puntando un mitra. Frate Gioacchino non ci pensò due volte e si gettò giù per la ripida scarpata cosparsa di sassi e di cespugli a lato della strada, accompagnato dal crepitio del mitra. Un colpo gli passò così vicino alla testa «che ho sentito muoversi l’orecchia», raccontò poi. Fu fortunato, perché, precipitato dietro un grosso macigno, i soldati non riuscivano ad avvistarlo e se ne andarono, immaginandolo morto in qualche anfratto.
Nelle famiglie contadine era aspettato come uno di loro, un frate che creava buonumore, tanto che poteva permettersi quello che ad altri non era concesso. Un mattino, dopo aver dormito nella stalla, la «azdóra» (massaia) gli chiese: «Fra Gioacchino, per colazione vuole due uova o un po’ di prosciutto?». Frate Gioacchino non rifletté più di tanto: «Mentre mi frigge le uova, mi tagli qualche fetta di prosciutto con del pane e un bicchiere di vino».>
Una caratteristica che tutti invidiavano a frate Gioacchino era il saper raccontare, con semplicità e arguzia, le avventure che gli accadevano nei suoi giri di questua. Autentici fioretti cappuccini, da competere con i fioretti di san Francesco. La sua sapienza evangelica, nascosta sotto episodi a volta surreali, ma autentici, andava diritta al cuore. Inoltre il modo di parlare nell’aspro ma espressivo e colorito dialetto romagnolo incantava chi lo ascoltava, frati e non frati, e distraeva anche i più burberi dai lori pensieri cupi.

Quando canta il gallo

Rubrica in Convento 02Frate Gioacchino, oltre che questuante, sentiva la terra come sua. Coltivava l’orto conventuale, curava le galline del pollaio, i conigli nelle gabbie, e i maiali del porcile, ed era di sua competenza anche la cantina, dove pestava l’uva, svinava, travasava, imbottigliava al riparo da occhi indiscreti, in modo che nessuno ne carpisse i segreti. Quando, però, le abitazioni si sostituirono ai campi coltivati a grano che fino ad allora avevano circondato il convento, le cose si fecero problematiche. La terra dell’orto risentì della mancanza del concime prezioso della stalla, le gabbie dei conigli rimasero vuote e i maiali furono sloggiati dal loro porcile. Le gallino no. A Gioacchino il coccodè delle galline sapeva di vita, e il chicchirichì del gallo gli pareva il canto del sole. Ai vicini però quei versi gallinacei non era affatto graditi e non passò molto tempo perché denunciassero la cosa alle autorità comunali. Quando i vigili urbani appresero che il trasgressore delle leggi comunali era frate Gioacchino ci risero sopra, ma non mancarono di fargli un richiamo: «Almeno tenga le galline con il suo gallo vicino alla mura, così che nessuno le veda e le senta. Frate Gioacchino obbedì, ma non il gallo, che continuava a lanciare alti i suoi chicchirichì. Una donna, particolarmente esasperata, una mattina spalancò la finestra, reclamando con forza i suoi diritti al sonno mattutino: «La faccia finita una buona volta con quel gallo!». Frate Gioacchino sembrava non aspettasse altro: «Lei è gelosa del mio gallo, perché il suo non canta più». Pane al pane e vino al vino. La donna chiuse la finestra e non l’aprì per tanto tempo.
Negli anni Cinquanta frate Gioacchino si era motorizzato, cambiando la mula con un motocarro Guzzi dapprima scoperto, e poi cabinato, e il brontolio sordo e impetuoso del suo mezzo meccanico lo accompagnava nella cerca di ogni ben di Dio. Nel metterlo in moto, lui si sentiva come il direttore di un orchestra, e il crepitìo del suo motore era ormai conosciuto in tutta la campagna. Le regole del codice della strada le decideva lui, e quando gli accadeva un incidente la ragione stava sempre dalla sua parte, senza discussione. Con il passare degli anni, però, il suo udito si attutì, sicché, senza accorgersene, per poter udire il canto del suo compagno di ventura, girava al massimo la manopola dell’acceleratore, tanto che il fracasso lo si poteva avvertire da lontano. Pure la vista cominciò a fargli difetto, e gli incidenti, per fortuna senza conseguenze alle persone, si fecero sempre più ravvicinati. In occasione di un incidente più serio del solito, il frate guardiano consegnò il mezzo incidentato a un amico meccanico sulle colline imolesi, lontano dal convento, raccomandandogli di ripararlo il più tardi possibile, anzi di lasciarlo così come era. I mesi passavano e frate Gioacchino, stanco di aspettare il suo “mulo” rimesso in strada, un giorno non si trattenne di dire la sua: «Bell’amico quel meccanico! È bravo, ma è lungo come una quaresima. A quest’ora si sarebbe potuto aggiustare anche un treno!». Il motocarro non fece più ritorno e frate Gioacchino, dalla salute ormai malferma, si rassegnò, continuando a piedi o in bicicletta a visitare gli amici contadini, che erano la sua famiglia.

Ode alla sapienza antica e nuova

Alla festa di uno dei suoi ultimi onomastici, il confratello poeta gli dedicò una cantica, di cui oltre alla strofa iniziale, sono qui riportate altre tre strofe:

La tua parola è miele della roccia,
un pane profumato, casereccio;
un po’ come la gente romagnola
dalla sapienza antica e sempre nuova.

Sei una vite carica di grappoli,
sei un fuoco di quercia per le veglie,
un vino stagionato per gli amici
sprizzante buon umore e contentezza.

Tu sei la nostra autentica memoria,
vivente immagine del cappuccino;
passa per te la nostra vera gloria,
forte e amabile fra’ Gioacchino.

La sua ultima parola prima di chiudere gli occhi fu un grazie riconoscente per quanti gli erano stati vicini soprattutto nei residui travagliati mesi della sua esistenza, segnati più da spossatezza che da vera malattia. E, a conclusione, la penultima strofa della medesima cantica, che riconosce il primato di chi ha saputo servire i confratelli:

Vorrei baciarti le callose mani,
i piedi screpolati inarrestabili,
e la fronte imperlata di sudore,
sincero amico e fratello maggiore.