Purché la cultura non induca in superbia

La raccomandazione di Francesco di vivere il vangelo anche scrivendo e leggendo

di Grado Giovanni Merlo
storico

Chartulae, Laudes, Benedictiones

Merlo-01Sicuramente a frate Francesco non dispiaceva scrivere e far scrivere. È noto come siano giunte fino a noi due chartulae, ossia due piccole pergamene vergate di sua mano. L’una è conservata nel sacro Convento di Assisi e contiene da un lato le Lodi di Dio altissimo [Laudes Dei altissimi] e dall’altro la Benedizione a frate Leone [Benedictio fratri Leoni]. La seconda si trova attualmente nel Duomo di Spoleto e riporta una breve lettera a frate Leone [Epistola fratri Leoni].


Gli autografi francescani spiccano all’interno di un non piccolo insieme di scritti risalenti al Poverello che sono pervenuti sino ai giorni nostri (laudi e preghiere, esortazioni e regole, epistole). Abbiamo poi notizia di lettere che non si sono conservate, ma di cui sappiamo con certezza che erano state scritte da frate Francesco (lettere al cardinale Ugolino d’Ostia, lettera al ministro provinciale e ai frati di Francia, lettera ai Bolognesi sul terremoto del 1222, lettera sul digiuno a madonna Chiara e alle sorelle, lettera a Giacoma dei Settesoli, lettera di benedizione e di assoluzione a madonna Chiara). Abbiamo usato di proposito il corsivo scritti/e poiché talora, soprattutto sul finire della vita, frate Francesco non era in grado di scrivere ed era costretto a dettare i suoi testi: doveroso al riguardo è il riferimento al Testamento di poco anteriore alla sua morte.
Nel Testamento, si precisa che la “rivelazione” divina di «vivere secondo il modello del santo vangelo» si tradusse in uno scritto «semplice e di poche parole», la cui stesura materiale fu affidata ad altri («lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il modello del santo vangelo; e io con poche parole e semplicemente lo feci scrivere»). Non è dunque il carattere autografo a connotare uno scritto di frate Francesco, ma il fatto che egli ne sia l’autore, qualunque mano lo fissi sulla pergamena. Anzi il Poverello ne sollecita la riproduzione e la diffusione. Esemplare è quanto si legge nella Lettera ai custodi [Epistola ad custodes]:«E tutti i miei fratelli custodi ai quali giungerà questo scritto e che ne faranno copia e la terranno presso di sé e la faranno trascrivere per i fratelli che hanno l’ufficio della predicazione e la custodia dei frati e che predicheranno sino alla fine le cose che sono contenute in questo scritto, sappiano di avere la benedizione del Signore Dio e mia».

Merlo-02-

Solo i libri necessari all’ufficio

Non è qui necessario proseguire in un discorso che risulta già a sufficienza chiaro e definito. Piuttosto occorre chiedersi quale fosse invece la posizione di frate Francesco rispetto alla lettura e ai libri. La risposta risulta difficile e complessa, costringendo qui a limitarci ad alcune suggestioni e proposte interpretative. Muoviamo dal capitolo terzo della Regola non bollata del 1221, là dove si precisa che i fratelli/frati chierici «possano avere soltanto i libri necessari per assolvere il loro ufficio e anche ai laici che sanno leggere il Salterio, sia loro lecito averne uno». La lettura concerne esclusivamente libri che siano funzionali in modo stretto alla vita liturgica e religiosa: tant’è che agli «altri [fratelli/frati] che non sanno di lettere [nescientes litteras] non sia lecito avere alcun libro». Su tale norma la discussione sarebbe lunga. Il suo senso può essere comunque interpretato attraverso le parole di Pietro Maranesi (in un libro assai utile dal titolo Nescientes litteras. L’ammonizione della Regola francescana e la questione degli studi nell’Ordine. Sec. XIII-XV, Roma, Istituto storico dei Cappuccini, 2000), secondo il quale si tratta di una esortazione ai «frati illetterati a non preoccuparsi di studiare per non perdere lo spirito del Signore e la sua santa operazione», anche se non bisogna dedurne in modo meccanico che frate Francesco fosse del tutto contrario agli studi.
In proposito ricordiamo quanto afferma frate Bonaventura da Bagnoregio a proposito del beato Francesco che agli inizi era poco istruito, ma che «in seguito all’interno dell’Ordine progredì nella conoscenza delle lettere non solo pregando, ma anche leggendo». Al di là delle intenzioni del ministro generale coerenti con il proprio progetto religioso e culturale, non si può trascurare il peso della sua affermazione. Tuttavia, il conseguimento di una cultura biblica e teologica non modificò la “intenzione” evangelica profonda di frate Francesco, il quale nel Testamento usa un’espressione assai 

significativa: «Anche se avessi tanta sapienza quanta Salomone». Al tempo del Poverello, in modo simbolico Salomone rappresentava il vertice della cultura, era il riferimento biblico eminente per gli uomini di cultura. Orbene, frate Francesco si serve di quell’ipotesi iperbolica per dichiarare la propria sottomissione ai «sacerdoti poverelli di questo secolo» che vuole «temere, amare e onorare come suoi signori».

Onorare e venerare i teologi


D’altra parte, egli vuole «onorare e venerare» tutti i «teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine (…) come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita». La teologia biblica occupa dunque un posto di assoluto rilievo, implicando ovviamente un’intensa attività di studio: il che vuole dire anche leggere e scrivere. Il Poverello lo sapeva benissimo come conferma la brevissima Lettera ad Antonio [Epistola ad Antonium], in cui frate Francesco comunica «a frate Antonio, suo vescovo» la propria approvazione alla sua attività di insegnamento della «sacra teologia ai frati, purché in questo studio non spenga lo spirito di orazione e devozione, come è stabilito nella Regola».
L’attività “intellettuale”, che comporta la lettura e la scrittura, appartiene dunque all’esperienza religiosa, quando non produca sensi di superiorità, stati d’animo e pensieri che allontanino dal vangelo. Sono certamente posizioni che possono apparire “fuori del tempo” o, meglio “di un altro tempo”. Ma è proprio così?