Leggere con disciplina e rinunce

Per Qoèlet, la fatica della lettura/scrittura deve creare una relazione vitale col Maestro

di Stefania Monti
clarissa cappuccina, biblista

Una lastra sopra la testa

Monti 01-foto-di-OttaniÈ singolare che a questo versetto (Qo 12,12) i commentari dedichino poca attenzione. Forse perché fa parte della cosiddetta seconda postfazione del libro o del secondo poscritto (Ravasi e Lohfink rispettivamente), considerato un’aggiunta che conferma quanto il libro ha ripetutamente affermato, che cioè non c’è nulla di nuovo per gli umani.

Dunque: “Non si finisce mai di scrivere libri, e il molto studio affatica il corpo”, o, secondo la traduzione di Lohfink: “Scrivere troppi libri non ha alcun senso, il troppo studio affatica il corpo”.
La differenza tra le due versioni è evidente e certamente la seconda pare più coerente con il senso generale del libro: se tutto è fumo o nebbia e per gli umani non c’è nulla di nuovo e il cielo è come una lastra sopra la loro testa, che senso può avere scrivere libri? Come disse quel maestro hasidico all’allievo che gli chiedeva di mettere per iscritto i suoi commentari: “A che scrivere un libro? I dotti non hanno bisogno di quello che scriverei (perché nella tradizione c’è già tutto e nessuno è così importante o geniale da aggiungere qualcosa) e chi allora lo leggerebbe? Un uomo semplice lavora tutta la settimana e non ha tempo di leggere. Leggerebbe il sabato? Ma dopo essere andato alla sinagoga, gusta il pranzo festivo con la famiglia, si sdraia sul divano con il mio libro in mano, a poco a poco si addormenta e il mio libro scivola a terra. A che scrivere un libro?”.
Il detto hasidico sembra ancora più amaro di Qoèlet, ma forse è solo più realista e ironico. Qoèlet pare semplicemente disturbato dal fatto che si moltiplichino manuali o commenti che affaticano uno studente inutilmente e che tutto questo non abbia fine, come dal fatto che la troppa dedizione a questo tipo di studio affatichi senza costrutto. La LXX infatti traduce “figlio mio stai in guardia, al fare molti libri non vi è limite, e molta devozione allo studio è fatica del corpo”.
Ciò che a noi può sembrare strano è che lo studio sia fatica del corpo (in ebraico baśar, alla lettera “carne”, che serve a indicare certamente il corpo ma anche a sostituire tardivamente il pronome indefinito “un tale”, i LXX hanno sarx, che riprende alla lettera il termine ebraico).
Siamo infatti abituati a pensare lo studio come fatica mentale o, al massimo, “nervosa” (magari in tempo d’esami). Ma per l’ebraismo tradizionale, dalle Scritture in avanti “studiare” equivale ad ascoltare ripetere e discutere: atti fisici e compiuti con altri, più che operazioni mentali e solitarie.
Nel v. 9 il verbo “ascoltare” non è il solenne šmʽ, che quasi ci è familiare, ma il raro ̓zn (dalla cui radice anche ʼozén, “orecchio”) che può voler dire anche “pesare su una bilancia” - dunque, ancora una volta, un senso fisico del discernimento -; sappiamo poi che in ebraico la Scrittura si chiama Lettura (miqraʼ) e che, se anche si legge da soli non bastano gli occhi, ma è necessario ripetere a bassa voce quello che si legge, mormorarlo, bisbigliarlo: è il verbo che noi traduciamo, forse impropriamente, con “meditare” (cfr. Sal 1,2).
Le ripetute esortazioni bibliche all’ascolto non sono solo evocative di un atteggiamento di docilità, ma rispecchiano un fatto concreto: la lettura come fatto condiviso: c’è chi legge proclamando e chi ascolta. E se uno legge da solo, ascolta se stesso, impegnando tutto il proprio corpo: occhi, lingua, orecchio.
In poche parole abbiamo qui una piccola sintesi di antropologia biblica: l’uomo è soprattutto il suo corpo - orecchie, bocca, mani - grazie al quale può costruire la propria sapienza e interagire con gli altri uomini.

Parole che stimolano e feriscono

Monti 02-foto-di-OttaniLe parole dei saggi poi non sono indolori (12,11). Qoèlet ne parla come di pungoli e chiodi, qualcosa di acuminato che stimola ferisce e tiene ben fermo come i pioli una tenda. Lo studio esige disciplina e qualche volta rinuncia - si può viverla bene, se si è motivati, ma sempre rinuncia è.
A questo punto compare il nostro v. 12 come un mašal, come fosse un proverbio. Alla fine del discorso è essenziale ricordare che, per quanti libri si leggano, ne resteranno almeno altrettanti che non si potranno leggere mai: più si legge e più si capisce di essere ignoranti senza rimedio. Quanto allo scrivere, vale la stessa regola: nessuno può o sa dire parole definitive. Quella che oggi pare la grande scoperta, tra qualche tempo verrà superata, contestata, forse persino dimenticata.
E poi si scrive troppo: era vero allora ed è vero adesso. Basta andare in una qualunque libreria e si vedono pile di libri di cui a stento si coglie l’importanza e ci si chiede chi mai potrebbe leggerli. Ci sono poi gli autori alla moda che oggi non si possono ignorare e domani forse saranno ignorati. Quanti resistono alla macina del tempo?
Verrebbe da pensare che il suo significato ultimo sia che alla fatica non corrisponde altro che ulteriore fatica. Tuttavia Qoèlet non intende esortare alla pigrizia e all’ignoranza. Lo straordinario - perché inatteso - finale del suo libro rimanda a uno studio accurato e a un più stretto coinvolgimento del corpo. Tutto l’uomo infatti sta nella venerazione di Dio e nell’osservare i comandamenti, perché Dio citerà in giudizio ogni azione (v. 14).
Sembrerebbe una conclusione sommaria e che semplifica troppo la complessa personalità di Qoèlet, ma al centro, ancora una volta, c’è la visione carnale dell’uomo.
A chi ha scritto l’epilogo, come del resto a Qoèlet, non interessano le azioni solo pensate o l’ortodossia dottrinale, bensì un agire retto, che tiene sempre come guida le due tavole del patto: venerazione di Dio e rispetto del prossimo.

Il maestro e l’allievo

La domanda retorica sottesa a questi versetti è, alla fine, qualcosa come: per quanti libri scriviate, ci sarà mai qualcosa di simile alla Torà? Per quanto vi affatichiate, c’è un agire che supera quello conforme alla Torà? Dove, allora, vale la pena di investire le proprie forze e la propria fatica?
Leggere e scrivere, studiare e commentare sono tutte facce dell’impegno umano nella vita, stimoli e chiodi che spingono l’uomo all’azione e in essa lo radicano.
Nasce da qui l’idea di una tradizione dinamica che interpreta, accoglie e passa un patrimonio in chiave creativa, a misura che la storia umana ci pone di fronte sempre a nuove domande.
§Quanto allo scrivere, un vero insegnamento si basa sempre sul rapporto tra maestro e allievo: è un fatto personale, un incontro di corpi: non a caso il discepolo deve avere una relazione vitale col maestro: era vero nell’antichità ed è vero oggi. Massimo Recalcati (L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Torino 2014) ci ricorda che un’ora di lezione può cambiare la vita e che solo il rapporto con un vero maestro, il rapporto personale, l’incontro tra due persone fisiche può indurre all’amore dello studio e alla passione per i libri sì che il corpo non si affatichi invano.