Abbiamo chiesto a Antonia Tronti di illustrarci che cosa è il piacere nella cultura orientale. Il piacere fa parte della natura del nostro essere e del nostro relazionarci, ma spesso pensiamo di doverci allontanare da esso. Questo aspetto noi “occidentali” lo attribuiamo alla cultura orientale. In realtà, ogni essere umano è chiamato a trovare un equilibrio dentro di sé tra queste due facce, esperienza non sempre  facile.

Barbara Bonfiglioli

Fonti di piacere e di dolore

La natura genera interazioni a cui l’io si aggrappa, a volte ossessivamente

Rubrica Religioni in dialogo 01La legge della relazione

«I contatti della materia, o Arjuna, danno luogo a freddo e a caldo, a piacere e a dolore. Essi vanno e vengono, continuamente»: è uno degli insegnamenti sull’origine e sulla natura dell’inscindibile binomio piacere-dolore che il maestro-dio Krishna consegna al suo discepolo nella Bhagavad Gita.

Come dire: siamo in un mondo la cui legge fondamentale è la relazione. Ogni elemento tocca l’altro, lo influenza, provoca in esso reazioni. È nella natura delle cose. In assenza del senso dell’io, la naturalezza di tale interconnessione procede indisturbata, senza intromissioni di giudizio. Ma in presenza del senso dell’io, come nell’essere umano, il contatto assume connotazioni ben precise, viene giudicato, soppesato, approvato o disapprovato, cercato o rifiutato. «La persona è detta essere la causa dell’esperienza del piacere e del dolore». La natura procede con le sue interconnessioni. La persona reagisce al loro manifestarsi. Nel contatto con cose, esperienze, esseri, l’io formula innanzitutto un primo giudizio, emette immediatamente e spontaneamente una sentenza: “mi piace” o “non mi piace”, “è piacevole” o “è spiacevole”, “è per me fonte di piacere” o “è per me fonte di dolore”. E in base all’emissione di questo giudizio, si orienta. Procedere nell’esperienza, e nel contatto, inseguirlo, tentare di perpetuarlo, oppure combatterlo, allontanarlo, tentare di interromperlo. L’esperienza del piacere è inscritta nel nostro essere parte di un cosmo interrelazionato e coscienza senziente. Naturale. Inevitabile. Facente parte dell’umano. Eppure spesso guardata con sospetto. Tanti i tentativi di governare tale esperienza, di addomesticarla, di dominarla, talvolta addirittura di cancellarla: opus contra naturam. Con conseguenti reazioni, davvero quelle sì, incontrollabili.

Rubrica Religioni in dialogo 02-foto-di-DeSantisIncapaci di accettare la transitorietà

Ma non è il piacere la trappola. Il piacere fa parte della natura del nostro essere e inter-essere. E in quanto tale andrebbe accolto con gratitudine e vissuto come uno dei doni di questo nostro vivere. La trappola è nella nostra successiva reazione ad esso. Nel volerlo trattenere, nel non accettarne la fuggevolezza, nel tentare di fare di esso un’esperienza permanente. «Quell’attrazione che accompagna il piacere è il raga» (Yoga Sutra II, 7). Il sorgere in noi dell’attaccamento (raga) che ci fa aggrappare all’esperienza piacevole e la rende l’oggetto unico ed ossessivo del nostro desiderio è la trappola. E la causa del suo inevitabile capovolgersi nel proprio contrario, il dolore. Se non sorgesse l’attaccamento, l’esperienza del piacere arriverebbe e svanirebbe. Semplicemente. E invece la nostra non accettazione del suo svanire getta i semi della sofferenza.
Sukham e duhkham sono le parole che indicano il piacere e il dolore nella tradizione indiana e sono quasi sempre abbinate. Designano stati di simile natura, differenziati dai due suffissi iniziali, uno indicante uno stato positivo (su - l’eu greco, indicante il buono) e l’altro uno stato negativo (duh – l’equivalente del dis-piacere). Quella che inizialmente si mostra come un’esperienza di piacere può facilmente volgersi nel suo contrario e fare spazio al dolore. Ciò che all’inizio ha il sapore dell’ambrosia può rivelare un retrogusto di veleno. E questo spesso proprio a causa della nostra non accettazione della transitorietà dell’esperienza del piacere. Inevitabile, in quanto esperienza scaturente da un contatto con gli elementi mutevoli della realtà, che va via via cambiando volto.

Rubrica Religioni in dialogo 03-foto-di-DeSantisDal desiderio nasce l’ira

Non è il piacere la trappola, bensì l’attaccamento ad esso. «… Dall’attaccamento nasce il desiderio e dal desiderio sorge l’ira, dall’ira deriva l’offuscamento e dall’offuscamento la turbata memoria, dalla turbata memoria la distruzione della ragione e dalla distruzione della ragione l’ultima rovina». La tradizione spirituale indiana antica non nega e non condanna l’esperienza del piacere, ma mette in guardia dall’attaccamento che può nascere in noi in seguito ad essa. E spiega quale catena di reazioni può accendersi in noi. Attaccandoci a una certa esperienza, entriamo nella dinamica del desiderio di trattenerla o di ripeterla nella forma in cui l’abbiamo conosciuta. Ma mentre l’esperienza del piacere deriva da un contatto – perlopiù sensoriale - con elementi del reale, il desiderio di trattenerla o di ripeterla è già fuori dalla realtà del contatto ed è nel regno dell’immaginato. Là dove il reale sbiadisce e viene soppiantato da immagini arbitrariamente elaborate dalla mente, che non trovano corrispondenza nell’esistente. Transitoria e unica è ogni esperienza di piacere. Non trattenibile e non ripetibile. Desiderando trattenerla o ripeterla, ci condanniamo alla frustrazione di desiderare l’impossibile. Da cui l’ira, la rabbia, il senso di impotenza perché ciò che vorremmo non accade. E l’offuscarsi in noi del retto sentire e del retto pensare. La confusione derivante dal vano inseguire l’immagine di ciò che non è e non c’è. E dall’offuscamento la turbata memoria, la “dimenticanza” della vera natura del nostro essere, il non sapere più chi siamo e quali sono le leggi della realtà. Con il conseguente sospendersi del funzionamento della “ragione”, ovvero di quella parte della nostra mente in grado di stare a contatto  con la verità più profonda del nostro essere e di rivelarcela. Questa la catena da cui Krishna mette in guardia Arjuna nella Bhagavad Gita. Non lo esorta alla negazione del piacere, ma lo rende consapevole di ciò a cui l’attaccamento ad esso può condurre.
Ed è allora per questo che nella Gita, come in altri testi della cultura sapienziale indiana, si raffigura spesso un saggio che è “al di là del piacere e del dolore”, affrancato da tale binomio. Non perché il piacere sia distrazione dallo spirituale o “via di perdizione”. Ma perché potrebbe incatenare. Potrebbe toglierci libertà. Potrebbe ancorarci ad una esperienza piccola e parziale, che se assolutizzata e ossessivamente inseguita rischia di diventare orizzonte piccolo e ristretto in cui il nostro desiderio, la nostra immaginazione e la nostra mente si rinchiudono.
Ma forse basterebbe essere nel qui e ora del piacere. Senza volerlo trattenere e senza idealizzarne la portata. Viverlo nel momento in cui accade, percependolo come indicatore dell’Oltre della Vita da cui proviene, lasciandoci ricondurre verso la Fonte del dono e permettendogli di accendere in noi gratitudine.

Dell'autrice segnaliamo:

-       E rimanendo lasciati trasformare,
Servitium editrice, Fontanella di Sotto il Monte 2014.
Impara da… Un itinerario tra yoga e preghiera cristiana,
Servitium editrice, Fontanella di Sotto il Monte 2014.