Le vie del Signore sono cambiate

Raccontare l’esperienza di Dio per condividerla

di Gilberto Borghi
pedagogista e insegnante di Religione

Baricentro basso

Qualche giorno fa me la vedo lì in corridoio, appoggiata ad un banco. Pensosa, ma non triste. «Che fai qui?» le dico. «Sto pregando, prof...». Clara ha diciassette anni. Vive in una casa di accoglienza per minori. A due anni la madre se ne è scappata di casa lasciandola con un padre ubriaco dalla mattina alla sera.
Quando rientrava a casa picchiava come un fabbro... «lo faccio spesso - continua lei - Non dico parole. Non dico le preghiere, quelle solite. Sto qui, e ascolto dentro di me una strana sensazione, come se sentissi una presenza buona che mi tiene in piedi. È da quando sono piccola che la sento, è stata la sensazione a cui mi sono aggrappata in tutti i miei casini... e nel mio dolore».
Samuele invece l’altra mattina mi ha assalito nel corridoio. «Lo sa prof. sono stato da quell’eremita di cui le avevo parlato quest’inverno. Questo parla con gli angeli, ha comunicazioni dirette coi santi. Dopo aver fatto il designer di moda per venti anni ha visto il demonio e la paura lo ha talmente segnato che ha deciso di consacrare tutta la sua vita a Dio. Mi piace un casino. Lui sì che ti fa sentire Dio». Ma la sua voce assomigliava più ad un invasato che ad un salvato e i suoi occhi erano duri e un po’ tristi.
Clara e Samuele non sono un caso. Sono l’emblema di questa generazione. Che comprende anche tanti adulti. Per loro il cielo non è chiuso, anche se sembra il contrario. Solo che non è più accessibile per le usuali vie che la Chiesa offre, perché il mondo è profondamente cambiato. La frantumazione interna che viviamo è davvero grande. Le persone oggi hanno un “baricentro basso”, vivono sentendo più che pensando. E sempre più spesso testa, cuore e corpo non hanno collegamento l’uno con l’altro. Oggi non è rilevante la coerenza logica di una teoria, quanto la possibilità che essa dà di sperimentare emozioni e sensazioni. E che ci piaccia o no, le nostre idee vengono recepite secondo questo binario.

Riunificare il corpo

Credo quindi che la questione della formazione religiosa oggi non si possa risolvere, né inquadrare, attraverso la “testa”, con la chiarezza teologica, magari fatta in pillole, con catechismi o strumenti prêt a porter. Questo ci vuole, ma da solo non basta e non è la questione centrale. Centrale è la possibilità di aiutare le persone a riunificare le proprie parti e a far sì che le verità, le emozioni e le azioni siano coerenti tra loro. Oggi non si può essere cristiani senza che ciò non coinvolga anche le emozioni e le sensazioni, oltre la testa. Il bisogno di Clara e di Samuele è quello di molti: avere davanti a sé modelli di santità “interi”, dove le parti di sé siano ricomposte a servizio della carità.
E ciò a partire proprio dal corpo, dalla dimensione più reale di tutte, e più dimenticata dalla formazione religiosa, in cui le altre sono ricomprese: «Questo è il mio corpo (cioè il mio tutto) dato per voi» (Mt 26,26). Per i miei ragazzi che ho a scuola il concetto di risurrezione è insignificante, molto meglio quello di reincarnazione. E ciò non per motivi logici, ma perché hanno una percezione del proprio corpo solo come di uno strumento accessorio. Non gli appartiene, non è loro. Il problema quindi, non è precisare il concetto di risurrezione, ma aiutarli a recuperare il senso di sé, della loro corporeità, se no anche la risurrezione resta solo un concetto vuoto.
E per fare questo un educatore alla fede deve cominciare dalla sua relazione con Dio. Chi fa esperienza di Dio nella vita spirituale ha emozioni e sentimenti che gli altri non hanno. Ed è questa esperienza che va comunicata, nel limite del possibile. Va mostrata e rappresentata davanti all’altro perché lui possa sentire e vedere, nella voce, nei gesti, negli occhi di chi racconta, qualcosa di Dio. La formazione religiosa oggi non si gioca sulle parole, ma sugli sguardi, le vicinanze, i sorrisi, i gesti fisici, in cui la Parola può farsi carne. È questione di persone che si incontrano e si raccontano. E si mettono in gioco. E in questo, qualcosa della percezione personale di Dio viene manifestata all’altro. Gesù non è principalmente una idea. Gesù è prima di tutto una relazione, anzi, meglio, uno stile di relazione.
E in ciò si rivela come l’obiettivo primo della formazione religiosa di oggi sia quello di suscitare domande, emozioni, dubbi, attraverso la comunicazione della propria vita. Mentre capita spesso che l’educatore alla fede non sia sintonizzato sulla lunghezza d’onda che gli uomini post-moderni utilizzano. Cioè noi diamo cibo di un tipo e le persone hanno fame di un altro. Noi diamo idee e loro vogliono emozioni, diamo motivazioni e loro vogliono esperienze, diamo doveri e loro vogliono gratuità, diamo senso e loro vogliono ricerca, diamo risposte e loro vogliono condivisione.

Riaprire le domande

Perciò lasciare che la richiesta di senso e la risposta sorgano da una domanda aperta per una emozione vissuta è molto diverso che offrirli sul piano logico, in modo esplicito, prima che le domande siano aperte realmente. Bisogna promuovere esperienze emotive in cui si possano aprire le domande che l’uomo da sempre si porta dentro. E lavorare per riaprire le domande richiede tempo, desiderio di ascoltare l’altro e relazione, perché in essa la gioia e il senso che noi viviamo siano percepibili. Se abbiamo un mazzo di fiori in tasca non abbiamo bisogno di offrirlo per convincere gli altri, se ne accorgeranno da soli.
È probabile perciò che anche la nostra pastorale vada rivista. Al centro non ci vanno gli strumenti o l’organizzazione, ma le persone e i loro tempi di crescita. E le attività proposte devono essere esperienze dirette sul campo, a partire dalle quali la catechesi, la liturgia e la carità trovano modo di avere di nuovo un senso unitario, perché danno forma ad un’esperienza reale vissuta. Il classico punto di partenza dell’educazione alla fede, che si dava per scontato, essere uomini che vogliono diventare cristiani, va cambiato in un punto di arrivo provvisorio a cui mirare: diventare uomini, nello stile cristiano.
Federica ieri mi ha sorpreso. Ha quindici anni e non fa religione. Ma alla fine dell’ora mi ha detto: «Io ci penso spesso a cosa sto a fare al mondo, ma mi capita poco di trovare qualcuno che mi ascolta. Il mio parroco, quando gli dico queste cose, non mi lascia neanche finire che ha già la risposta pronta. Magari è anche giusta, ma per lui è come se si dovesse seguire una strada già fatta e che tu devi solo camminarci sopra».

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