Storia d’armi e di imbrogli

Nel centenario della Prima Grande Guerra (1915-1918) un bacio al mulo e un calcio alla guerra

Rubrica in Convento 01-Storia-d'armi-foto-archivio-provincialeTestardo come un mulo

Frate Pellegrino, al secolo Augusto Maccagni, un emiliano della bassa reggiana, classe 1896, prima di farsi cappuccino a 33 anni, aveva vissuto da soldato la Grande Guerra, con episodi che, per la vivacità dei suoi racconti, sono rimasti freschi nella mia memoria come li raccontasse ora.

Quando, il 22 novembre 1915, fu chiamato alle armi, già da qualche mese le armi avevano fatto sentire sinistra la loro voce. Dopo l’addestramento militare, il maggio dell’anno seguente fu «scaraventato» con il Reggimento 227° sul fronte del Trentino, territorio irredento, per arginare l’avanzata delle milizie austro-ungariche. Il contrattacco ebbe esito favorevole, ma le perdite furono tali che fu concesso ai superstiti un mese di riposo per dare tempo di colmare i vuoti lasciati dai caduti. Ai primi di agosto il Battaglione al completo e in pieno assetto di guerra si diresse, con altre Divisioni, alla volta di Gorizia, per sottrarla al dominio austriaco. L’operazione richiese un costo spaventoso di perdite umane, e il Reggimento di Augusto, dopo la conquista della città, si accampò in un torrente in secca, una posizione infelice, non lontano dalle postazioni nemiche poste sui monti, pronte a far cantare la mitraglia contro i poveri militari italiani quasi allo scoperto, costretti in tutta fretta a scavare delle trincee di fortuna. Ma la fame vien mangiando… Così raccontava Augusto, ormai divenuto frate: «Ricordo un episodio accadutomi, nel quale, per poco, non ci lasciai la vita, salvato da un mulo. Per ordine del Comando ero stato incaricato, con una carretta trainata da un mulo, di andare a Lucinico, un abitato poco distante da Gorizia, per un prelievo di viveri. Al ritorno mi unii alla truppa che stava attraversando la passerella di legno costruita alla bell’e meglio sull’Isonzo, con l’intento di stabilire una testa di ponte sulla riva sinistra del fiume. Vi era un continuo viavai di militari, di carrette con casse di munizioni, e di ambulanze proprio sotto le postazioni austriache, che, dopo la prima sorpresa, non tardarono a organizzarsi per fermare l’avanzata italiana. Consapevole del pericolo, avevo fretta di passare di là dal fiume, ma il mulo della mia carretta, non appena mise uno zoccolo sul ponte di legno, si impennò non volendo assolutamente avanzare. Io lo bastonavo a più non posso e lo tiravo con tutta forza per la cavezza, ma niente da fare. Sempre fermo e irremovibile. Di lì a pochi secondi udii il sibilo di una grossa granata, che centrò in pieno il ponte. Uno spettacolo più spaventoso in vita mia non l’ho mai visto. Le chiatte cariche di militari e di masserizie che attraversavano il fiume in piena furono travolte dalla corrente, e i gorghi dell’acqua in un baleno inghiottirono cose e soldati che in quel momento erano in transito sul ponte bombardato. Allibito, tornai indietro e baciai sul muso il mulo, che con la sua impennata, nonostante le bastonate che gli avevo dato, era stato più giudizioso di me e mi aveva salvato la vita».

Rubrica in Convento 02-Storia-d'armi-foto-archivio-provinciale-2 Mi saluti l’Italia

Il tragico episodio sull’Isonzo per il Comando fu solo un banale «incidente» di guerra, a differenza della conquista di Gorizia che, benché terribilmente sanguinosa, aveva creato un’ingannevole e pericolosa euforia. L’avanguardia dell’esercito italiano, sull’ala dell’entusiasmo, si era spinta troppo avanti, venendosi a trovare ai piedi del San Gabriele, del San Marco e del Monte Santo, proprio sotto il fuoco nemico. L’artiglieria era impossibilitata a intervenire per evitare di colpire le truppe italiane, e quando venne l’ordine di ritirata al di là della ferrovia, il problema era come salvare la pelle, dovendosi attraversare uno spazio aperto di oltre duecento metri. Augusto era anche lui tra quei soldati imprudenti, e quando vide il Capitano piangere nel comunicare l’ordine di ripiegare in piccoli gruppi, fu il primo con altri tre compagni a sfidare il pericolo, confidando nella sorpresa, e si ritrovò sano e salvo dall’altra parte. Gli altri gruppi, più ritardatari, furono presi di mira dalle mitragliatrici del nemico e Augusto vide morire «moltissimi» suoi commilitoni.
Quella sanguinosa circostanza, in cui fu ferito a una spalla anche il Capitano, si rivelò per il nostro soldatino una fortunata occasione di lasciare la prima linea del fronte. Il Capitano, in procinto di venire ricoverato in un ospedale da campo, rimase assai colpito dalla frase che Augusto nel salutarlo gli disse: «Capitano, Capitano! Mi saluti l’Italia!». Tanto colpito che gli rispose: «Senti, soldatino, nella cucina del Reggimento mi hanno chiesto un aiuto per lavare i piatti. Io ti presento al comandante e vedrai che ti accetterà». La cosa andò a buon fine, e Augusto si trovò al sicuro, in una cucina allestita in un grande sotterraneo, che serviva anche da sala da pranzo per gli ufficiali. Due mesi soltanto, perché un Ufficiale medico, uomo arrogante e presuntuoso, lo rispedì al fronte per avergli rotto la sua «tazzettina del caffè, ricordo della sua fidanzata». Augusto fu costretto a riprendere tutto il suo equipaggiamento di guerra e ritornare in trincea, in prima linea. Ma il nostro soldatino aveva imparato dal suo mulo che bisognava stare un passo indietro per scansare il pericolo sempre in agguato. Sicché il primo giorno della nuova situazione, assieme ad altri sette commilitoni, marcò visita dal Tenente medico del Battaglione. «Andò sotto il primo, la solita prescrizione comune militare: sale inglese; poi l’altro, che aveva gli occhi rossi: gli furono ordinati occhiali da sole con un giorno di riposo in terza linea. Venne poi il mio turno. Mi guardò bene, poi mi disse: “Mi sembra di conoscerti. Non sei quello che è alla mensa del Reggimento? Perché sei in prima linea?”». Augusto, ancora amareggiato per il trattamento ricevuto, sputò il rospo e raccontò quello che gli aveva combinato il Capitano medico per avere rotto la sua “tazzettina da caffè”. Il Tenente, conoscendo molto bene il carattere vendicativo di quel Capitano medico, guardò Augusto e gli rispose seriamente: «Ma tu sei ammalato, moltissimo ammalato! Scopri il busto, che ti ausculto i polmoni. Hai avuto la pleurite, ci sono dei grossi postumi. Hai pure la febbre. Adesso aspetta cinque minuti, ti preparo la cartella clinica, andrai all’Ospedale da campo, poi urgentemente partirai per Milano all’ospedale di riserva in viale Brianza». Ad Augusto sembrò di sognare e non ebbe neppure il tempo di salutare gli amici di cucina, perché il Tenente medico glielo proibì, dato che nella diagnosi figurava «gravissimo».

Rubrica in Convento 03-Storia-d'armi-foto-archivio-provinciale-3Il treno dei desideri

Augusto prese il treno della Croce Rossa e raggiunse Milano, presentandosi all’ospedale, dove un medico, letta la cartella clinica, gli ordinò una «medicazione alquanto buffa». Fu imbottito con ovatta e cotone, tanto che «mi ingrassai due volte più del normale». Per fortuna che non aveva la febbre, come invece era scritto nella cartella, altrimenti sarebbe morto dal calore. Lo vennero a trovare i genitori, e la madre, appena lo vide così conciato, si impressionò tantissimo. Augusto la tranquillizzò, assicurando di stare meglio di loro, che gli diedero una bella ciambella, di quelle con il sapore di casa. Il finto malato ne mangiò subito una bella fetta, e la parte rimanente gli fu rubata la notte stessa da altri soldati ammalati, «che avevano fame come me». Dopo venti giorni di degenza a Milano, i malati trasportabili, compreso il nostro che peraltro godeva ottima salute, «ma fame, sempre fame maiuscola», furono tutti trasferiti in altri ospedali. Augusto fu smistato a Thiene, nella zona pedemontana vicentina, «luogo di aria buona», provvidenziale per la pleurite diagnosticata dal Tenente medico del suo Battaglione. Sempre imbottito di ovatta e di cotone, quando già pensava di godersi una lunga degenza in salute, il Colonnello medico, insospettito dal suo aspetto tutt’altro che malaticcio, lo volle visitare a fondo e gli disse alquanto seccato: «Chi è stato quella bestia che ti ha mandato fin qui, tu che stai meglio di me?». Augusto non trovò altra via d’uscita se non rivelargli tutta la storia di quella messa in scena. Il Colonnello fu comprensivo e convenne che quel Tenente medico di Gorizia aveva dato una giusta lezione al Capitano geloso della «tazzettina», e trasferì il malato «guarito» nella cucina dell’ospedale ad aiutare le suore nel preparare i piatti per i soldati feriti. Fu in questo tempo che avvenne l’incontro con il cappellano dell’ospedale, «un cappuccino molto anziano, con una barba fluente e bianca, che mi pronosticò che io sarei diventato un cappuccino: “Oh, nino! Un giorno tu ti farai cappuccino!”». Ma Augusto a questo ancora non pensava, perché a lui premeva portare la pelle a casa, possibilmente tutta intera.
Dovranno però passare altri anni e accadere altre avventure incredibili per quel soldato di nome Augusto, perché finalmente arrivasse il giorno in cui si chiamerà frate Pellegrino, più noto come «frate Pacetta», perché alle famiglie che visitava nella questua, lui, che aveva combattuto la Grande Guerra, augurava sempre, alzando le mani quasi in segno di resa: «Pace a tutti!».