Catastrofi e iatture di un sommo poeta

Il piacere dell’espiazione nei versi dell’irriducibile Jacopone da Todi

di Pietro Casadio
della Redazione di MC

Pietro-Casadio 01-foto-di-Leonora-Giovanardi Maledetto dalla testa ai piedi

Jacopone, se lo incontrate, è uno di quei tipetti tutto pepe a cui è meglio non chiedere alcun piacere.

Mentre siete ancora lì a dirgli “Fammi un favor…” ecco che lui vi ha già rifilato un bel calcione o vi ha tirato qualche nome o magari vi ha scagliato una piccola e innocente maledizione di morte. Sia chiaro: non lo fa perché vi vuol male, no no, ma proprio perché vi vuole bene, proprio perché pensa che quello sia farvi un piacere. Pensate che una volta, così si dice, è andato al matrimonio del fratello ricoperto dalla testa ai piedi di trementina (una sorta di resina) e di piume. Immaginate la contentezza del fratello e di sua moglie! Il fatto è che, Jacopone, è un tipo così, con una concezione del piacere tutta sua, o meglio, con l’idea che il piacere sia qualcosa da rifiutare nella sua essenza e nella sua radice perché tutto ciò che è terreno, tutto ciò che è corpo, allontana dalla salvezza e porta alla dannazione. E allora un calcione, un improperio o una maledizione non possono che far bene al vostro spirito, lo aiutano a liberarsi dalle catene corporee per salire a Dio. Insomma, se lo vedete, pensateci due volte, prima di chiedergli un piacere.
Per la verità, sarò sincero, è piuttosto difficile che lo incontriate dal vivo, perché Jacopone (da Todi) è morto nel 1306, dopo circa settant’anni di vita. È stato un grande poeta del Duecento e anche un importante religioso: dopo la conversione, datata al 1268, Jacopone - novello san Francesco - abbandona il secolo e tutti i suoi averi e per circa dieci anni vaga per l’Umbria come mendicante finché non entra nei frati francescani, aderendo alla corrente rigoristica degli spirituali. Un francescano, uno di casa nostra, dunque, venerato per giunta come beato dalla Chiesa cattolica.
Jacopone è uno dei rappresentanti più originali di quella cultura che prende il nome di contemptus mundi, il disprezzo del mondo e di tutto ciò che è terreno perché - si pensa - allontana da Dio. Vorrei poter dire “cultura medievale”, ma temo che questa visione del mondo esca dai confini del Medioevo per giungere fino a certi modi di fare, a certi pensieri, a certe mezze parole della nostra moderna cristianità. Ma questo, forse, lo avete letto negli altri articoli, perciò concentriamoci sul nostro personaggio.

Pietro-Casadio 02-Gustave-Dore-www.umbertocantone.iLa concezione del mondo immondo

La vita di Jacopone da Todi, l’avrete ormai capito, è all’insegna della radicalità. Una radicalità spirituale, in una continua tensione verso l’ascesi e il misticismo, che si traduce in una radicalità materiale, fatta di quello che oggi definiremmo autolesionismo e del rifiuto di ogni bellezza e soddisfazione corporale. Tanto che questo ha fatto fantasticare, forse più del dovuto, i suoi biografi che lo descrivono mentre vaga per la strada tutto nudo come un pesce, con un basto d’asino sulla schiena (una rozza sella di legno) e un morso in bocca. Questa immagine un po’ inquietante del nostro francescano è certamente alimentata da alcune sue eccezionali poesie, prima fra tutte la famosa O segnor, per cortesia che ben rappresenta l’ideale di piacere (da evitare) del suo autore.
Questa ballata è una preghiera a Dio, ma non per chiedere salute e onori, come altri fanno, bensì per chiedere qualsiasi tipo di malattia, pena, disgrazia e disonore. Jacopone si tira addosso di tutto e di più e lo fa usando il linguaggio tecnico della medicina di allora, un linguaggio crudo che dimostra la situazione terribile, dal punto di vista sanitario, dell’Italia duecentesca, vessata da ogni sorta di epidemia. Le prime dieci quartine sono un ributtante elenco di malattie: lebbra, quartana, idropisia, epilessia, paralisi, bubboni, carcinomi, emorroidi, ulcere, cecità e molto molto altro. Una vera e propria sfilata dell’orrore, una sfilza di aberrazioni sinceramente richieste da Jacopone al Signore, finché la carne non sia ridotta allo sfacelo e la presenza di Jacopone sia ripugnata e disgustata da tutti. Da qui la richiesta di essere buttato in un burrone per vivere il resto della sua esistenza con i rifiuti e le carogne, finché morte, rigorosamente «dura», non giunga. Ma la ferocia del religioso non si ferma qui, non ci può essere pace neanche per il suo corpo morto: per aggiungere colore alla sua composizione, si augura di essere divorato da un lupo e chiede che i suoi unici resti, le sue reliquie, siano la «cacatura» dell’animale, sparsa fra i rovi e le spine. Infine, per soffocare anche un vano desiderio di santità, Jacopone ipotizza alcuni miracoli dopo la morte. E qui arrivano i nostri guai, perché questi miracoli prevedono niente meno che terribili visioni e una discreta diffusione di iattura ogni qualvolta che il nostro poeta venga nominato. E visto che ne stiamo parlando da un po’, suggerisco a me e a voi di compiere un bel rito di purificazione al termine di questo articolo.
Credo che comunque vi siate fatti un’idea sufficiente di ciò che voleva esprimere Jacopone in questa ballata. Ma non sarebbe giusto nei suoi confronti omettere il significato dell’ultima quartina che chiude la poesia e che fornisce la chiave interpretativa di tutto. Perché accanto a un rigoroso disprezzo del mondo e della corporalità, la serie di - direttore, posso dirlo? - sfighe che si tira addosso il nostro serve anche per vendicare l’assassinio di Cristo da parte dell’umanità, assassinio di cui ogni membro di codesta umanità, secondo Jacopone, dovrebbe ritenersi colpevole. Insomma, questo violento rifiuto della carne e di tutto ciò che è terreno nasce da un gigantesco scarto fra il Signore, che usa «cortesia» anche se manda un corteo di malattie, e l’uomo, capace solo di «villania», cioè tradimento di un patto di fedeltà. E allora tutta la vita è un’espiazione.

La coerenza dell’irriducibile

Beh, non posso certo dire che questa visione del mondo susciti la mia completa simpatia e adesione, ci mancherebbe altro. Ma suggerisco prudenza (a me stesso in primis) nello stigmatizzare un personaggio così notevole. Perché se bisogna studiare il passato per giudicarlo dall’alto della nostra presunta civiltà, e metterci così l’animo in pace, possiamo anche guardare avanti che è meglio. Invece, nei vagabondaggi letterari, così come in ogni viaggio, è bene sospendere il giudizio e cercare l’incontro, un incontro che deve necessariamente chiamarci in causa. Nel mio, di incontro con Jacopone, sono sempre rimasto affascinato dalla sua radicalità, dalla sua “anima invincibile” che non arretra di fronte a nulla, che rifiuta ogni grammo di piacere in nome di una speranza che è rivolta oltre la morte. E mi chiedo se io, più propenso - col Qoèlet - a godermi la vita e i suoi piaceri, sono capace di dedicarmi così tanto e di guardare così lontano.