Il piacere che piace a Dio

Nell’amore della coppia è essenziale la ricerca del piacere condiviso

di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

Borghi 01-foto-di-Ivano-PuccettiLa fede che sta stretta

Deborah la conosco da 4 anni. E da 4 anni conosco la sua storia.

Lui ha tre anni in più e, incredibile ma vero, stanno insieme da quando lei ne aveva 14 e mezzo. Una storia bella, semplice. Di due ragazzi atipici, credenti entrambi, con due belle famiglie alle spalle. Una storia di cui Deborah va fiera, perché spesso le sue amiche l’hanno invidiata per questo, per una storia “che spacca”.
Adesso lei ha 19 anni. E le cose sembrano farsi serie. Quando ho chiesto in classe cosa pensavano di fare dopo la fine delle superiori, lei ha detto: “Mi sposo, faccio due figli e lavoro”. E lo ha detto con la forza e la corposità di chi sa fare i conti con la realtà e vede sia il bello che il brutto delle scelte, e proprio per questo ha deciso che valgono la pena.
E l’altro giorno mi ha rincorso per un mezzo corridoio: “Prof. ha un minuto? È una roba pesa, non ci sto più dentro”. “Che succede, Deborah? Dimmi”. “Lei lo sa, io con Mauri ci sto da una vita. E sono contenta fin’ora di non avere mai dovuto aggiustarmi troppo. Lui mi capisce, e le mie scelte le ho sempre fatte per rispettarmi e perché credo. Però adesso si fa dura. Comincio a sentire che alcune cose della fede mi stanno strette. Come si fa a non fare l’amore quando si ama davvero? Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare come i miei genitori. Mia mamma l’ammiro. Ne ho parlato con lei e lei mi dice che devo tener duro e che se davvero ci vogliamo bene sapremo aspettare. Però adesso è un po’ come se dovessi scegliere tra me e Dio e non riesco più a trovare il modo di andare d’accordo con Lui. Il mio parroco mi dice che devo saper distinguere tra la gioia dell’amore e il piacere. Ma come si fa a vivere la gioia senza tenerci dentro anche il piacere? Questo viene da solo, mica è male. Noi ci amiamo davvero, io ne sono sicura”.
Non posso certo fare io da direttore spirituale di Deborah, ma una domanda mi assale, e non riesco ad evitarla. Cosa mi sta chiedendo davvero Deborah? Non mi sta chiedendo di modificare le regole morali della Chiesa. E nemmeno mi sta chiedendo di fregarsene di queste regole. Se fosse questo, l’avrebbe già fatto, con l’aria che tira. Mi sta chiedendo una cosa molto più profonda: di trovare una parola positiva sul piacere sessuale per poter riconciliare dentro di sé fede e sessualità.

 Borghi 02-foto-di-Daniele-BandiniL’equivoco del non detto

Quasi sempre il nostro parlare di sessualità ha a che fare con altre due parole, amore e procreazione. Quasi mai invece facciamo “reagire” tra loro fede e piacere. E forse invece sarebbe ora di farlo. Visto che il sesso è la dimensione etica in cui viviamo la massima distanza tra vita reale dei fedeli e indicazioni del magistero. Perciò se vogliamo provare a rendere ancora sensato il vangelo della sessualità, per gente come Deborah, non possiamo continuare a parlare solo di amore e procreazione. Ma bisogna ricominciare dal piacere e dal suo senso teologico positivo.
Per la vita di fede di due sposi cristiani cambia qualcosa se fanno l’amore con piacere o senza? Per la vita di fede, dico! La stragrande maggioranza dei cristiani sarebbe portata a rispondere che non cambia, per la vita di fede! Anzi, per una parte, forse, se il piacere non ci fosse sarebbe anche meglio, per la vita di fede. Questa risposta maggioritaria fa il paio con la difficoltà del catechismo della Chiesa Cattolica di trovare un senso teologico positivo al piacere sessuale. 58 parole appena, vengono spese per questo. “Il Creatore stesso ha stabilito che nella reciproca donazione fisica totale gli sposi provino un piacere e una soddisfazione sia del corpo sia dello spirito. Quindi, gli sposi non commettono nessun male cercando tale piacere e godendone. Accettano ciò che il Creatore ha voluto per loro. Tuttavia gli sposi devono saper restare nei limiti di una giusta moderazione” (CCC. 2362). 58 parole in cui, se si cerca un senso teologico positivo al piacere sessuale, non lo si trova. Tutt’al più, qui sembra adombrarsi questa risposta: non sappiamo bene perché Dio abbia posto il piacere nell’atto sessuale. Ma se l’ha fatto un motivo teologico ci sarà. Perciò deve essere una cosa buona. Meglio, però, non esagerare.
Risposta che mostra come il peso e le difficoltà di san Girolamo e di sant’Agostino, a fare i conti col sesso, siano arrivate fino a noi. Se è buono, perché una giusta moderazione? È una risposta, questa, che non scalfisce nemmeno la richiesta di Deborah, lasciandola a sé stessa, sguarnita, proprio sulla questione che oggi sembra essere, non solo per lei, ma per la maggioranza delle persone, il luogo unico del senso della sessualità: il piacere. Ma se noi non sappiamo dire nulla di positivo su questo luogo, come facciamo a renderci credibili ai suoi occhi, e a quelli di chi vive oggi?

Borghi 03-foto-di-Agnese-CasadioTeologia dell’amore

Non c’è bisogno di ricorrere al Buddhismo tantrico o alla “Post-Age” per provare a trovare un senso teologico positivo al piacere sessuale. La nostra stessa tradizione cattolica ha abbondanti risorse per questa risposta. Da Lattanzio (scrittore cristiano del 300 d.c.) che definisce il piacere sessuale come merito e gloria di fronte a Dio (Divinarum institutionem liber VI. De vero cultu 23); a Guglielmo di Saint-Thierry (monaco cistercense, teologo e filosofo francese del 1100) che vede nel piacere sessuale l’incarnazione dello Spirito Santo nella coppia e l’esperienza di “primizia” sulla terra della vita di piacere infinito della Trinità (Expositio super Cantica Canticorum, PL 180, pp. 567; 570). Da santa Ildegarda di Bingen (mistica e dottore della Chiesa del 1150), secondo la quale il piacere della donna è la base necessaria per far partire la riproduzione e realizzare l’essere co-creatori, fatti cioè ad immagine e somiglianza di Dio (Liber causae et curae - P. Kaiser, Leipzig, 1903, pp. 78-79); a santa Teresa d’Avila (mistica e dottore della Chiesa del 1500), che vede il piacere sessuale come traduzione concreta dell’essenza dell’estasi che vivremo con Dio, nel Regno (Santa Teresa d’Avila, Libro della mia vita, Milano 2013, p. 45).
Più recentemente. Dalla Gaudium et Spes del Vaticano II, secondo cui il sesso e il piacere non solo esprimono il dono reciproco di sé degli sposi, ma ne favoriscono anche la crescita. Perciò è auspicabile un generoso esercizio della sessualità, altro che giusta moderazione! (GS, 49); a san Giovanni Paolo II, per cui la sessualità è la liturgia della coppia. Attiene perciò alle cose prime e ultime, del Regno, non a quelle penultime, della terra. Ma anche Benedetto XVI, che sostiene a chiare lettere che l’atteggiamento propriamente cristiano è quello del sì al piacere sessuale, considerato come un dono di Dio (Luce del mondo, Roma, pp. 150-151).
Allora non è la stessa cosa se due sposi cristiani vivono l’amore con piacere o senza. Perché, già da questi testi, il piacere è l’anticipo del regno di Dio, l’incarnazione dello Spirito Santo; favorisce l’essere co-creatori ad immagine di Dio, ed è fonte di merito e gloria di fronte a Dio. Ma, se ha ragione san Giovanni Paolo II, si potrebbe trovare un altro significato ancora. Se seguiamo la Bibbia, in Ef 5,30-32 si può pensare che il senso della liturgia, per la Chiesa, sia come il senso della sessualità per due sposi: vivere l’amore totale per l’altro. Il partner come incarnazione di Dio per me. Non è un caso quindi che l’atto eucaristico supremo di Gesù si esprima con la stessa frase che un marito e una moglie vivono nell’atto d’amore: “Questo è il mio corpo dato per te”. Il piacere sessuale è eucarestia concreta.
Ma questa frase di Gesù è il cuore della vita di fede, non appena un’aggiunta. Tutto sta in piedi sulla resurrezione e tutto si concentra nell’eucarestia. Ecco allora perché, se la gioia pasquale non erompe anche sul piano emozionale e fisico, diventando anche piacere, resta il più grande tradimento di Gesù,-- perché Lui ha voluto proprio la corposità e la concretezza di un corpo vivo per dirci e darci la sua stessa vita.
Allora si spiega come mai il nuovo catechismo dei giovani, Youcat, sul piacere sessuale si esprima così: “Essere colmi di amore è provare un tale piacere da uscire fuori da sé e dedicarsi a chi si ama (…). La più bella e grande espressione dell’amore è l’unione fisica e sensuale tra uomo e donna (…). La Chiesa cattolica difende un’impostazione integrale dell’amore sessuale: a questo appartengono in primo luogo il piacere fisico, che è qualcosa di buono e di bello. In secondo luogo l’amore personale e in terzo luogo l’apertura a ricevere dei figli” (nn. 402-404). Dire che l’amore è un piacere, e far comparire il piacere sessuale come la prima delle finalità della sessualità integrale, cambia un po’ la prospettiva?