Editoriale - dida Malala-Yousafzai live.worldbank.orgJe suis Malala

Editoriale di Dino Dozzi
Direttore di MC 

“Io sono Malala. La mia battaglia per la libertà e l’istruzione delle donne”. Questo il titolo dell’autobiografia di una piccola grande ragazzina pachistana, premio Nobel per la pace nel 2014 per il suo impegno a favore del diritto delle bambine all’istruzione. Le è stato conferito insieme con Kailash, un attivista indiano, che lotta per difendere i diritti dei minori: una pachistana e un indiano, una musulmana e un hindu, una ragazza giovanissima e un adulto. Appartengono a due Paesi vicini e nemici, ma insieme hanno chiesto ai capi delle loro nazioni di impegnarsi «perché i bambini possano essere liberi di essere bambini, di crescere, mangiare, dormire, ridere, piangere, giocare, imparare».
Dall’età di 11 anni, attraverso il suo blog, Malala faceva propaganda all’istruzione e denunciava le violenze contro gli insegnanti da parte dei talebani. Il 9 ottobre 2012, le vengono sparati in faccia tre colpi che colpiscono sia lei sia due sue compagne che ritornano da scuola. Quattro mesi di ospedale, poi placca di titanio nel cranio e apparecchio acustico; ma anche discorso nella sede delle Nazioni Unite e infine Oslo: è la più giovane vincitrice del premio Nobel per la pace. La sua autobiografia è dedicata «a tutte le ragazze che hanno affrontato l’ingiustizia e sono state zittite. Insieme saremo ascoltate»; e si conclude con queste parole: «Io amo Dio. Ringrazio il mio Allah. Gli parlo tutto il giorno. Lui è il più grande. Donandomi questa “diversa altezza” da cui parlare alla gente, Lui mi ha conferito anche grandi responsabilità. La pace in ogni casa, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni nazione: questo è il mio sogno. L’istruzione per ogni bambino e bambina del mondo. Sedermi a scuola a leggere libri insieme a tutte le mie amiche è un mio diritto. Vedere ogni essere umano sorridere di felicità è il mio desiderio».
Questa ‘vocazione’ Malala la scopre in famiglia: suo padre è insegnante e poiché dove vive non c’è scuola, con molti sacrifici ne fonda una, che diventa centro di cultura e di educazione civile. Sua madre non è mai andata a scuola, ma mentre suo marito insegna, lei va in giro ad aiutare chi ha bisogno. La loro casa ha sempre la porta aperta per tutti. «Un bambino, un insegnante, una penna e un libro possono cambiare il mondo. Porterò avanti la mia lotta sino a quando non vedrò ogni bambino andare a scuola», dirà Malala all’ONU.
Quella famiglia e soprattutto quella bambina non piacciono ai talebani, che vogliono tenere le donne in casa e lontane dall’istruzione. Si uccidono i bambini per intimidire i genitori. L’attentato a Malala si inserisce in una storia lunga e drammatica di violenze contro le donne e la loro istruzione: il massacro dei 331 studenti nella scuola di Beslan nell’Ossezia del Nord nel 2004; l’uccisione di Benazir Bhutto, la prima e unica Primo Ministro in Pakistan, il 27 dicembre 2007; il rapimento di 276 studentesse da parte di Boko Haram il 14 aprile 2014 in Nigeria; l’uccisione e il ferimento di 148 studenti quasi tutti bambini nel dicembre 2014 nella scuola militare di Peshawar in Pakistan; la distruzione di 400 scuole nella valle di Swat (dove abitava Malala) in Pakistan, per impedire alla ragazze di andare a scuola, l’uccisione di 148 studenti il 3 aprile scorso nell’universtià di Garissa in Kenya per mano di estremisti islamici. I fondamentalisti di tutte le religioni, più che delle bombe, hanno paura della scuola e dell’istruzione, perché aprono la mente delle persone e promuovono il senso critico, educano alla libertà e tolgono tante forme di povertà.
Malala vuole il diritto all’istruzione per tutti i bambini, anche per i figli dei talebani, perché è solo così che si può creare un’umanità nuova nel segno della compassione e della misericordia: «È la compassione che ho imparato da Maometto, Gesù Cristo e Buddha. È l’eredità di cambiamento che ho avuto da Martin Luther King e Nelson Mandela; è la filosofia della non violenza che ho imparato da Gandhi, da Bacha Khan e da Madre Teresa di Calcutta. È il perdono che ho imparato da mio padre e mia madre. Ecco ciò che la mia anima mi dice: essere in pace e amore con tutti».
Questo è allargamento di orizzonte che proviene dall’istruzione. Certo non solo da quella: non tutte le persone che hanno studiato hanno questi sentimenti. Ma impedire lo studio e l’istruzione fa parte del progetto di ogni regime, perché maggiore istruzione significa maggiore senso critico, maggiore libertà, maggiore conoscenza e rispetto del diritto di tutti. Il superamento di tanti fondamentalismi, lontani e vicini, nazionalistici e religiosi, ha bisogno anche dell’istruzione. Qui ha davvero senso ripetere tutti: «Io sono Malala».