Fioretto cappuccino

Come padre Samoggia recuperò gli occhiali

Rubrica in Convento 03 -  Fioretto Cappuccino disegno di Cesare GiorgiI Cappuccini, fino a tempi recenti, all’entrata in noviziato, come abbandono della vita precedente cambiavano nome, aggiungendo al nuovo nome il luogo di origine, preceduto da una «da». Quando il giovane Luigi Samoggia divenne cappuccino, ebbe il nome altisonante di «Francesco Antonio da Bologna».

Col passare degli anni, tuttavia, per merito della sua dialettica irresistibile in pubblici dibattiti e come insegnante e predicatore particolarmente vivace e incisivo, era chiamato semplicemente padre Samoggia da tutti, frati compresi. Era un uomo piccolo di statura e austero, ma aveva «l’occhio vivido, la parola calda e vibrante - così testimonia un suo ammiratore - convincente nelle argomentazioni, pungente nell’arguzia, che si esprimeva con motti feroci, tali da spegnere in bocca qualsiasi contestazione».
La sua notorietà si impose soprattutto durante la guerra. Irriducibile avversario della ideologia nazifascista e di ogni totalitarismo, aiutava i perseguitati dal regime, nascondendoli in convento o in altri luoghi ritenuti più sicuri. Ma questa sua attività non tardò a dar nell’occhio alle autorità nazifasciste, che con un inganno, all’inizio del 1943, lo arrestarono a Castelbolognese. Due spie, dopo aver suonato il campanello alla porta del convento, si erano presentati come evasi inglesi bisognosi di un nascondiglio. Padre Samoggia a tutto pensava fuorché a una trappola diabolica, e disse loro di entrare. Amara fu la sua sorpresa: quasi subito dopo il convento fu invaso da soldati tedeschi, che rovistarono in tutti gli ambienti alla ricerca di disertori, di eventuali complici e di armi. I frati furono riuniti al pianterreno e affidati alla sorveglianza di un soldato armato di mitra. Uno dei frati, frate Samuele, che anche lui qualcosa aveva da nascondere, lesto come una lepre e coraggioso fino a rasentare l’incoscienza, accorgendosi di una momentanea distrazione del soldato di guardia, senza pensarci un solo secondo, svoltò a gambe levate l’angolo del corridoio, uscì nell’orto e, passando tra le viti non ancora portate, riuscì indenne a raggiungere una breccia nella mura del convento e a far perdere le sue tracce. Quella fuga inaspettata fu una fortuna per gli altri frati, che vennero lasciati liberi. Ma non andò libero padre Samoggia, che dai tedeschi fu condotto dapprima al carcere di Ravenna, poi a Verona nell’ex convento dei Carmelitani Scalzi adibito a carcere, e infine nelle prigioni di San Giovanni in Monte a Bologna. Ma per poco. Riportato, sempre nel 1943, a Verona per esservi processato, fu rinchiuso nell’ala del carcere riservato ai sei membri del Gran Consiglio del Fascismo catturati, tra cui Galeazzo Ciano, che, votando l’Ordine del giorno Grandi, avevano determinato la caduta del regime. Qui egli diede prova della sua umanità, sostenendo spiritualmente i gerarchi «traditori» in attesa del processo, che puntualmente si concluse con la condanna di cinque di loro e di altri tredici in contumacia alla fucilazione per alto tradimento. Padre Samoggia li aiutò a prepararsi alla morte (11 gennaio 1944), come testimonierà più tardi lui stesso a chi scrive: «I libri di storia non ne parleranno, ma sono stato io a confessarli e prepararli a morire. Sono tutti morti perdonando».
L’unico dei processati non condannati alla fucilazione, ma a 30 anni di carcere, Tullio Cianetti, in occasione della Pasqua 1944 (9 aprile), scrisse una poesia in romanesco, in cui esprime tutta l’amarezza e il disprezzo per gli sbalzi d’umore dei padroni di turno, ma anche appassionata ammirazione per padre Samoggia, carcerato come lui e ricordato con il nome di fra Francesco.

Rubrica in Convento 04 -  Fioretto Cappuccino Foto giovanile di padre Francesco Antonio Samoggia Pasqua 1944

Pensavo stamattina: «Quanno esco
da ‘ste catene infami libberato
ricorderò ‘gni tanto fra Francesco
povero cappuccino carcerato».
Ch’avrà fatto ‘sto frate bonaccione
pe’ merita’ l’onore de li «Scarzi»?
In ‘sto monno birbone
pure li frati sentono li sbarzi
de la temperatura d’un padrone.
Ja servito la messa un generale,
antico sordataccio e bersajere
e dar caratterino ar pepe e ar sale.
Accumunati insieme dar dolore
der carcere, scompare la bardanza
e nasce er fiore de la fratellanza
che spicca su l’artare der Signore.
Rubrica in Convento 05 - Fioretto Cappuccino Fucilazione dei gerarchi fascisti l'11 gennaio 1944Quello ch’ha detto er frate so’ parole
de verità, splennenti com’er sole:
nun c’è dotrina e nun c’è fantasia,
nun c’è filosofia,
nun c’è governo reggio o pontificio
der tempo antico e novo che nun sa
ch’er frutto d’un commune sacrificio
se chiama «lebbertà».
[…]
Piccolo cappuccino carcerato
che ciai fatto arisplenne un po’ de sole,
grazie pe’ le parole
gonfie d’umanità e de devozione
con cui stamane ciai commemorato
‘sta triste Pasqua de risurrezione.
Drenti ‘ste celle piene di dolore
noiantri lo sapemo
che solo ne la legge der Signore
sta scritto che chi sbaja è perdonato
e chi soffre da Cristo è sollevato.
Frate, risorgeremo!
Tu tornerai ner chiostro venerato,
noiantri da li fiji e da le spose
che ci aspettano a casa e penseremo,
ogni Pasqua a ‘ste mura dolorose
e a la chiesetta buja che cia visto
mesti fratelli in Cristo
degradati al livello de le cose.
Ne le città lontane
quann’er giorno de Pasqua le campane
soneranno a distesa, te vedremo
frate, che nun sei reo,
comm’oggi da l’artare dir sereno:
«Gloria in excelsis Deo»!

Dopo essere stato riportato a Verona, padre Samoggia era stato processato nel marzo 1944, e condannato alla deportazione in Germania. Nel frattempo, però, un intervento diplomatico riuscì a ottenergli il ritorno nelle prigioni di San Giovanni in Monte a Bologna, dove poté godere di un’inspiegabile libertà di movimento: confessava, pregava, teneva lezioni di filosofia e di teologia ai compagni di sventura, recando conforto a tutti in quel luogo di sofferenza, di fame e di paura.
Fino a quando, un giorno, tutti i carcerati di San Giovanni in Monte riuscirono a «evadere» dal carcere in maniera rocambolesca. Era il 9 agosto 1944. Si erano presentate al carcere, custodito da militari italiani, due automobili, dalle quali erano scesi dei partigiani travestiti da ufficiali tedeschi e da militari fascisti con finti partigiani «catturati» da incarcerare. Non fu difficile, con questo espediente, farsi aprire le porte del carcere e sopraffare la guardia, riuscendo a mettere in libertà tutti i detenuti. «Presto! Presto!», ripetevano i liberatori, paventando una controffensiva.
Anche padre Samoggia si precipitò fuori. Ma… senza gli occhiali. Un grosso inconveniente! Nella calca generale e nella fretta non era riuscito a rintracciare gli occhiali, lasciandoli forzatamente nella sua cella. Dopo essersi allontanato alquanto, si trovò a domandarsi come fare. Senza quegli occhiali, gli unici che possedeva, lui, afflitto da una forte miopia, non poteva andare lontano. Ci pensò su, poi, con la speranza che il carcere fosse ancora in mano ai partigiani, tornò indietro. Quando giunse di nuovo a San Giovanni in Monte, gli fu sufficiente un’occhiata, per quanto sfocata, e ascoltare le voci per accorgersi che invece dei partigiani vi erano militari tedeschi, mandati in rinforzo. Regnava molta confusione e tanto era il disordine, mentre le porte e i cancelli del carcere erano ancora spalancati. Padre Samoggia, pur esitante, entrò cercando di non destare sospetti, si introdusse nell’edificio, raggiunse la sua cella e, tastando con le mani un po’ dappertutto, ritrovò gli occhiali. I tedeschi non si preoccuparono di quel frate piccolo e «innocuo», forse scambiandolo per il cappellano del carcere, e lasciarono fare. Così padre Samoggia uscì dal carcere indisturbato, e fece ritorno in convento, per poi attraversare clandestinamente la linea del fronte e raggiungere Roma, città ormai liberata, dove svolse il compito di cappellano dei profughi.
Se quei soldati tedeschi l’avessero saputo, chissà come avrebbero trattato quel frate «innocuo». Ma padre Samoggia di coraggio ne aveva da vendere, ed era un frate battagliero come nessuno, tanto che, recandosi una volta a San Giovanni Rotondo, fu apostrofato da padre Pio, che neppure lo conosceva, con queste parole: «Frate battaglia!». Nome più che consono per lui, che neppure un fucile puntato sulla fronte ne poteva spegnere l’audacia, perché si sentiva un combattente per la verità e la “lebbertà”.