Qui si parla delle pendole presenti nei vecchi conventi e che scandivano il tempo con il loro toc, toc e poi segnalavano anche acusticamente le ore, le mezz’ore e perfino i quarti, con gioia per alcuni e tormento di altri. Il fioretto cappuccino ricorda poi gli occhiali di padre Samoggia dimenticati fuggendo dal carcere e naturalmente recuperati.

Nazzareno Zanni

Gli ultimi rintocchi delle pendole

Implacabili e inarrestabili sfogliano il libro del tempo fino all’ultima ora

Rubrica in Convento 01 - Pendole Pendola nel Convento cappuccino di San Giuseppe a BolognaQuand’ero novizio

Tanti anni fa… Il tempo, che nella giovinezza sembra scorrere troppo lentamente, è volato via come un lampo che scompare nel cielo notturno. Non i ricordi, però, perché, se nel tempo si corre in avanti, per i ricordi si corre all’indietro. Quello passa via senza poterlo recuperare, mentre questi si riescono a rivivere.


Durante tutto l’anno di noviziato nel convento di Cesena ero tormentato da un lento e fastidioso toc, toc, che faceva avanzare la giornata come il rullare di un tamburo di guerra e che risuona ancora nella mia memoria. Era la voce di una vecchia pendola, di quelle artigianali, nuda, con ricarica a pesi, che di anni ne aveva tanti, sopravvissuta a chi l’aveva costruita e ai numerosi frati che ne avevano ascoltato per tutta la loro vita il battito ammonitore. Era la voce più forte del convento, appena sussurrata per i frati anziani ormai deboli di udito, mentre a noi giovani sembrava troppo lenta e assordante. Forse, nei nostri sogni notturni, avremmo voluto che ci facesse uno sconto sulle ore, perché era tanta la voglia di correre sulla via del tempo, anticiparlo addirittura. Il quadrante circolare verniciato in smalto bianco, con numeri romani dipinti in nero a mano, era appeso al muro del piano superiore, appena fuori della biblioteca, e il pendolo, con i due pesi sostenuti da una sottile fune, raggiungeva, attraverso un’ampia fessura nel pavimento, il piano sottostante, oscillando lentamente al pari del respiro di un morente. Quel toc, toc ci perseguitava e sembrava dettare i passi dei frati, che inconsciamente ne seguivano il ritmo. Batteva l’ora a ogni quarto.
All’appuntamento si scatenava, come se troppo a lungo fosse stato impedito di lanciare alti i suoi battiti sonori. Dapprima l’avvio, un meccanismo con il rumore di ruote dentate in movimento, poi il rincorrersi lento ma potente di tanti colpi quante erano le ore, a cui si aggiungevano rintocchi più acuti, ten, ten, ten, ten, che indicavano i quarti. Per un anno mi ha letteralmente perseguitato in qualunque parte del convento mi trovassi. Avrei preferito una meridiana, che silenziosa non disturba nessuno, e che, con il transitare di una nuvola davanti al sole o in una giornata coperta, si astiene dall’indicare l’ora, come se il tempo fosse sospeso. Ma i frati prediligevano le pendole, anche se possedevano come status symbol un orologio da tasca.

Rubrica in Convento 02 -  Pendole Scritta nella pendola del Convento San Giuseppe di BolognaLa congiura

Quella pendola che mi odiava, e ne era ricambiata, non era l’unica in convento. Ne esisteva un’altra nel coro. Questa era molto più piccola con ricarica a molla. Il suo pendolo era corto e veloce, e poteva dare l’impressione a noi giovani novizi che le ore scorressero via più veloci, ma anche con quella il tempo sembrava sempre troppo lento. Soprattutto quando, con un saio pesante addosso, eravamo immersi nella meditazione silenziosa comune, in un coro gelido d’inverno e caldo afoso d’estate. «Sia d’inverno che d’estate bisogna portare un abito spesso - assicuravano i frati anziani - perché ciò che protegge dal freddo difende anche dal caldo». Se per la stagione sfavorevole avevano perfettamente ragione, tutt’altra cosa era per l’estate, in cui l’abito che portavamo, tanto spesso da stare in piedi da solo, ci soffocava. Quando finalmente la pendola avvertiva che il tempo previsto per la meditazione era concluso, si doveva però aspettare un altro toc, toc, quello delle nocche delle dita del frate guardiano, sempre lento, battute sul banco per proseguire nella preghiera e muoversi un po’.
Sparse in convento vi erano poi, nei punti più strategici, altre pendole, più modeste di quella della biblioteca, che anch’esse volevano far sentire la loro voce. Non conoscevano che cosa fosse la sincronizzazione, sicché suonavano come a turno, una dietro l’altra. I frati avevano quasi una cura materna per le loro pendole, che, come tutti i mezzi meccanici, necessitavano di una manutenzione periodica, che le sottoponeva alla tortura di lime e di martelli, per correggere i denti delle ruote costruite artigianalmente. Non sempre però tutto questo era imposto da necessità, perché la faceva da padrone l’iniziativa personale, che si allietava nell’osservare le interiora del meccanismo. Le pendole venivano aperte, e l’apparato meccanico veniva estratto dalla sua sede, appeso a un chiodo affisso appositamente in posizione più bassa, per poter operare più comodamente.
Allora vedevi il frate «chirurgo» spostare la testa da ogni parte per poter osservare meglio ogni dettaglio, e scovava così anche qualche ragno, certamente sordo, che si era annidato tra i complessi meccanismi. Ogni ruota dentata veniva smontata, pulita e oliata a dovere, per poi essere collocata su un tavolo vicino, come su un lettino chirurgico. Il frate chirurgo ammirava con soddisfazione il risultato di quel lavoro di sbudellamento, per poi mettersi all’opera di rimontare ogni organo al suo posto, e così ridare nuova vita a ciò che sembrava morto. Una soddisfazione impagabile vedere la pendola funzionare a dovere, e ascoltare il forte toc, toc che risuonava come una marcia imperiale. Ora giungeva il momento più atteso: ricollocare tutto l’apparato nella sua sede naturale, dentro la sua cassa di legno, simile alla cassa funebre di un poveraccio, e regolare il battito variando la lunghezza del pendolo, perché segnasse l’ora esatta. Salvo poi accorgersi che immancabilmente la pendola si intestardiva a suonare l’ora per conto suo. Un cruccio per i frati maestri orologiai, per il quale mai sono riusciti a trovare il rimedio giusto. Ma tant’è, le pendole conventuali funzionavano!

L’ultima ora fatale

A metà dell’interminabile corridoio del convento di Bologna, scandisce il tempo da chissà quanto un vecchio orologio a pendolo, che si erge dal pavimento fin verso le travi delle capriate. Una pendola il cui movimento è dovuto al peso di due lunghi cilindri di piombo e il cui meccanismo è stato curato ripetutamente, più che un malato in ospedale. Ha un quadrante di ottone con numeri romani, e ha subìto vari trapianti d’organo, che gli hanno permesso di ringiovanire ogni volta che qualche ruota dentata o qualche perno cominciavano ad accusare gli anni. Non è una pendola tanto diversa da altre sparse per il convento, che tra di loro intessono un dialogo più che fare un concerto. Tuttavia se ne differenzia per una scritta, vergata a mano chissà quando, ancora perfettamente leggibile: «Signat solers, quod fugit irreparabile, tempus: Omnibus et verum nigram denuntiat horam» (Indica puntuale il tempo che passa e non ritorna: a tutti così preannuncia l’ultima ora). Un ammonimento che il tempo fugge senza mai tornare indietro e che ricorda l’ineluttabile ora dell’addio a questo mondo, la medesima ora che quotidianamente, senza accorgersene, tanti frati hanno oltrepassato indenni per tanti anni, ma che un giorno li ha visti fermarsi. Al momento quella pendola è ferma da qualche tempo, e tace muta come se per lei fosse già venuta l’ultima sua ora. Nonostante ciò, segna per un istante due volte al giorno l’ora precisa senza che nessuno la degni di uno sguardo. Forse qualche giovane frate, passandole davanti e non comprendendo il latino - una lingua ormai morta anche nei conventi -, si chiederà il significato di quella frase e forse nemmeno la leggerà. Morta la pendola, sì, morto il latino, forse, ma quella scritta è sopravvissuta per ricordare che il tempo è un libro che si sfoglia giorno dopo giorno, fino a quando si arriva all’ultima pagina.