Sporcarsi le mani per il bene

Il dibattito sulla scuola di oggi a partire da don Lorenzo Milani

di Antonello Ferretti
frate cappuccino

Cari figlioli

Come sempre. Parli di scuola e subito ti ritrovi lui con il suo motto “I Care”, oramai obsoleto perché troppo utilizzato a proposito e sproposito. Senti citare il libro Lettera ad una professoressa, come se fosse l’unico testo che abbia scritto e, se qualcuno ama la goliardia, è capace di farti una intera relazione sulla frase detta da Gianni, «La scuola è certamente meglio della merda».
Don Lorenzo Milani è anche questo, ma forse molto di più, sia per la scuola che per la vita. Scuola e vita: due espressioni inscindibili nel pensiero esistenziale (non esiste una pedagogia di don Milani, ma una scuola ed una esperienza di vita) del priore di Barbiana. Proprio perché la scuola è la vita e viceversa, il maestro non è solo il tecnico della educazione, colui che trasmette delle abilità, dei saperi, delle strategie (termini che riempiono la bocca di docenti ed educatori di oggi), ma molto di più.
Parlando di sé, della sua scuola e del suo modo di trasmettere il sapere, diceva: «Non vendo prestazioni, ma la mia vita intera, a una comunità intera». Insegnava e praticava che il senso della vita consiste nello spendersi per gli altri, e solo chi trova, o cerca di trovare, a tentoni ogni giorno, un poco questo senso può educare tutti a diventare sovrani. E solo chi si pone in questa ottica è in grado di perdere letteralmente la testa per ciascuno dei suoi alunni.
Alunni o scolari? Come chiamava don Lorenzo i suoi ragazzi? Da un’analisi attenta delle lettere e dei testi appare una cosa insolita: essi sono per lui i suoi figlioli. Un forte senso di paternità, di genitorialità, caratterizza tutto l’insegnamento del priore e solo chi è padre è in grado di amare e di poter usare la cinghia senza essere scambiato per un pedofilo o un violentatore di coscienze («le frustate del priore - si racconta in Lettera ad una professoressa - dopo un po’ non fanno più male e non lasciano il segno, mentre gli effetti dei vostri brutti voti rimangono per tutta la vita»). E «solo dopo che avrai perso la testa per sei poveri come è capitato a me, troverai Dio come un regalo». Questo si legge in una lettera indirizzata a Nadia Neri: Dio come regalo (e come potrebbe essere diversamente?), ma solo dopo aver amato i poveri e solo dopo essere stato per loro padre, maestro, educatore.

Sicuri sul filo del rasoio

«Occorre avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani», scrive don Lorenzo nella lettera ai giudici (testo in cui appare il don Milani uomo nuovo, capace di essere povero tra i poveri di Barbiana): i ragazzi devono imparare a guardare avanti, scrutare i tempi nuovi, e in questo la scuola ha un compito importantissimo. «La scuola - scrive ancora il priore - siede tra il passato ed il futuro e deve averli presenti entrambi. È l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato occorre formare in loro il senso della legalità, e dall’altro la volontà di leggi migliori... Ecco allora che il maestro deve essere, per quanto può, profeta, deve scrutare i segni dei tempi, indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso».
Questi alcuni stimoli sulla figura dell’insegnante. Se pensiamo che don Lorenzo Milani è morto nel 1967, il cammino da fare in questa direzione appare ancora lungo, se mai sia stato accolto dal mondo della scuola ed intrapreso. Oggi per insegnare occorrono lunghi anni di studio, una laurea universitaria, si devono conoscere ed apprendere molte nozioni e poi magari si trascura l’aspetto forse più importante: la conoscenza concreta e reale del ragazzo da formare, la capacità di scrutare nei suoi occhi.
A Barbiana si faceva scuola partendo da stimoli occasionali provenienti dal vissuto dei ragazzi e ciò che era particolare diventava universale nella netta convinzione che il problema di uno è il problema di tutti ed insieme bisognava affrontarlo in quanto «uscire da soli dai problemi è l’avarizia, uscirne insieme è la politica».
In occasione del Natale 1965 il priore scrive ad un amico e ad esso illustra cosa avveniva concretamente nella sua scuola: «I ragazzi qui studiano e pensano, ma anche io penso e studio con loro e normalmente arriviamo alla verità insieme. Quando rimane qualche divergenza, il bene che ci vogliamo ci aiuta a risolverla e a convivere senza tragedie. Perché questo bene è fatto di rispetto reciproco. Il parlarsi fonde insieme le nostre ricchezze».
Questo testo, che esula da quelli classici conosciuti del Milani, mi pare profondissimo. La verità di cui si parla non è quella oggettiva, matematica, ma quella che dà un significato alla vita, quella per la quale sei disposto a lottare fino in fondo anche se non la riesci a stringere e chiudere nel tuo piccolo mondo razionale. Poi l’importanza della parola vista come strumento per fondere insieme le proprie ricchezze.

La metamorfosi necessaria della scuola

Non esistono culture di serie A o di serie B secondo il priore di Barbiana, esistono solo culture espresse o non espresse. I contadini del Mugello non avevano una storia o una tradizione culturale inferiore a quella dei loro amici di Firenze, era solo diversa, ma soprattutto non avevano lo strumento per farla conoscere, per farla uscire dal loro vissuto e per questo rimanevano “vinti figli di vinti”. E oggi la scuola come si pone davanti ai nuovi vinti figli di vinti, quali sono i bambini degli extracomunitari o dei ceti più poveri?
Vorrei concludere (anche se le cose sarebbero ancora molte da dire), questa carrellata su alcune idee di don Lorenzo con quello che egli disse sulla scuola in una pubblica assemblea nel 1963: «Sapete a cosa corrisponde la scuola per la vita dei vostri ragazzi? Corrisponde ad un ottavo. Se togliete le ore di sonno (nove) restano quindici ore in cui i ragazzi sono svegli con gli occhi e le orecchie aperte sulla vita, su quello che insegna la vita, su tante scuole della vita. Perché la scuola non è mica solo quella dello stato, la scuola sono anche le strade, i giornalini, il cine, la televisione, i compagni, le stupidaggini che sentono per strada, le ore che perdono. I ragazzi tengon gli occhi e le orecchie tese continuamente, dal mattino alla sera, e imparano tante cose. La scuola grava solo per un ottavo della loro vita: è piccola cosa, e le altre cose sono molte di più. E vi meravigliate se i ragazzi non amano la scuola?».
Ma la scuola oggi si rende conto di non essere l’unica agenzia educativa esistente? Tenta di interagire con le altre strutture educative cercando di sporcarsi le mani per il bene dei figlioli che le sono affidati, o continua ad essere una realtà fortemente autoreferenziale che boccia i ragazzi perché non sanno che Giove era il padre di Minerva?