Pensare, dire e costruire la speranza

La speranza è un comandamento oneroso, da realizzare adesso

di Giovanni Nicolini
fondatore delle Famiglie della Visitazione

Nicolini 1La fragilità dell’ottimismo

«Tutte le opere del Signore sono buone; Egli provvederà a suo tempo tutto. Non c’è da dire: “questo è peggiore di quello”; a suo tempo ogni cosa sarà riconosciuta buona» (Siracide 39,33-34).


Entro con molta cautela e con un certo timore nel tema che mi è stato proposto. La storia di tutti e l’esperienza di ciascuno di noi è piena di ammonimenti in questa direzione. Dall’ironia della definizione giovanilista del “giovanotto di belle speranze” alla esortazione che nel dialetto della mia terra dice “cala, trinchetto” al medesimo giovane, fino all’inevitabile accostamento tra speranza e illusione come giudizio per un ottimismo che naufraga nel realismo di una delusione amaramente concreta. Mi si consenta allora di premettere qualche precisazione.
Il termine “ottimismo” viene così definito dal Dizionario della Lingua Italiana di Giacomo Devoto: “Disposizione psicologica a prevedere e giudicare favorevolmente il corso degli eventi, e a considerare la realtà nel suo lato migliore anche a costo di illudersi”. E come “Concezione filosofica che interpreta il mondo come essenzialmente buono (per esempio lo stoicismo nell’antichità, il sistema di Leibniz nel mondo moderno)”. Anche la Chiesa nella sua storia e nella sua tradizione di pensiero ha percorso ipotesi di “ottimismo” che purtroppo molto spesso hanno generato più scoraggiamento che consolazione: sono i legami con quel “pensiero classico” di totale fiducia nella “ragione” e nella “volontà” della creatura umana che si è tradotta inevitabilmente nella triste constatazione di quanto questa ragione e questa volontà siano fragili ed esposte a facili sconfitte.
Nell’attuale orizzonte della conoscenza e della ricerca, soprattutto in campo scientifico, l’ottimismo non ha migliore udienza: si pensi alla severa critica che la ricerca scientifica impegnata nel tema fondamentale dell’energia rivolge alle irresponsabilità politiche di un mondo che identifica il riconoscimento del suo progresso con una crescita incessante dei consumi, senza tener conto né dei limiti severi delle energie provenienti da combustibili non rinnovabili come il petrolio, né dell’inquinamento atmosferico né quindi dei danni che mutano il clima della terra e sconvolgono gli equilibri del pianeta. In questo ambito si viene infine a lodare un sano e inascoltato “pessimismo” che per lo meno avrebbe il compito di “far pensare” con maggiore realismo.

Nicolini 2Un pane e un calice per tutti

Premesso tutto questo, non voglio condannare l’ottimismo, ma desidero legarlo strettamente a quel termine “speranza” che non solo è al cuore della fede ebraico-cristiana, ma che è esigenza severa della vita morale del cristiano. Ed è giusto e bello ora considerare la potenza straordinaria della speranza e il suo fondamento.
Nelle culture mondane è presente un dato che descrive in termini essenziali la speranza fino ad esserne una nota sostanziale, ed è il suo essere esposta, e protesa, verso un elemento, un esito, un tramite, che è intravisto, o addirittura definito e descritto. Ma non ancora dato. Non ancora raggiunto! Per esempio: il Paradiso! O, più legato alla vicenda del mondo: la pace dei popoli. O, in obiettivi enormi, ma almeno razionalmente più ravvicinabili: il pane per tutti, come anche questi giorni il nostro carissimo papa Francesco ha chiesto, unendolo al tema delicato e grave del lavoro, dove ha chiesto che quel pane possa essere guadagnato da un lavoro dignitoso. Un lavoro per tutti e un pane per tutti. E chiederò proprio a questa immagine e a questa realtà del “pane per tutti” di condurci al grande fondamento della speranza cristiana.
Sono un cristiano, un cristiano peccatore, e ogni giorno celebro, e quasi sempre presiedo, la messa. E nella messa c’è quel pane, e ci sono quelle parole sul pane: “Prendete e mangiatene tutti”. E le parole del calice sono ancora più stringenti ed esigenti perché dicono che il sangue di quel calice è versato “per voi e per tutti”, dove il “tutti” della nostra piccola assemblea esce da noi e invade le strade e i cuori di tutta l’umanità! Un pane e un calice per tutti! La speranza cristiana nasce da qui! Da questa parola e da questi segni. Da qui nasce una “teologia della speranza” assolutamente potente ed esigente. Questo pane viene spezzato e questo calice viene donato perché Gesù lo ha già spezzato e offerto! E lo ha fatto per tutti. Con noi che celebriamo la Pasqua di Gesù ci sono tutti!
Non solo tutti i cattolici. Non solo tutti i cristiani. Non solo tutti quelli che credono in Dio. Non solo tutti i buoni e i giusti e i casti. Ma tutti! E tutti quelli che verranno! Perché il futuro è già avvenuto. Il vangelo di Gesù è il fine di tutto perché è la fine di tutto. Il vangelo è l’Apocalisse, cioè la grande rivelazione del compimento finale. E non solo la rivelazione, ma il dono: a me poveretto e a tutti noi poveretti. Il dono della fine e del fine di tutto: nel nostro fratello Gesù siamo tutti fratelli perché tutti figli dell’unico Padre. È necessario far cadere l’ultimo ostacolo: quando Gesù ci dice che il Regno non è più lontano. È vicino e bisogna convertirsi. Bisogna convertirsi alla buona notizia!

L’obbligo gravoso di sperare

Bisogna dunque sperare. La speranza non è un’eventualità, ma è un obbligo grave! Se non fosse accaduto niente di nuovo sarebbe bene non illudersi e non cadere in facili e gracili ottimismi. Ma è accaduto Gesù. La speranza non è speranza che qualcosa accada, ma è la speranza perché Gesù è accaduto! L’annuncio del vangelo non è una serie di regole, e la fede non è una dottrina. Il vangelo e la fede sono Gesù nella nostra storia. Sono la “nostra” storia della salvezza. Sono la storia della nostra salvezza. Mentre in questo momento io scrivo questi pensierini, e quando forse qualcuno di voi li leggerà, intorno a noi, vicino e lontano, si compiranno eventi terribili, barconi affonderanno nel Mediterraneo e bambini moriranno di fame: la speranza è il severo comandamento a pensare, dire e fare, senza lasciare che quei mali siano l’ultima parola. L’ultima parola è sempre la Pasqua del Signore. Nella mia parrocchia alla periferia di Bologna ci siamo messi d’accordo che qui da noi è proibito morire! E come si fa? Non si deve morire. Bisogna invece dare la vita! Come molti fanno qui intorno a me. E come chiedo al Signore di poterlo fare anch’io, povero peccatore.
Questa “speranza” cambia veramente tutto. Qualche giorno fa si camminava verso la domenica dove Gesù si presenta dai suoi, ma loro pensano sia un fantasma. E così pensano, anche se Lui mostra loro le mani e i piedi. Allora dice: “Avete qui qualcosa da mangiare?”. E mangia davanti a loro del pesce arrosto. Scendevo le scale di casa per una persona che chiedeva aiuto. Vedendo il suo viso dietro al vetro della porta mi sono chiesto “e questo chi è?”. Una domanda che nella mia poca fede e nella mia poca speranza mi faccio spesso. Quando ho aperto, lui mi ha fatto la domanda di Gesù: “Hai qui qualcosa da mangiare?”. Tremando, ho capito chi era. Gli ho dato qualcosa. Ma se venisse un’altra volta gli direi di venire su a tavola con noi. Dunque: sperare, per noi, è un comandamento severo. Ed è il respiro nuovo della vita nostra e di tutti. Andiamoglielo a dire!