Tutto cominciò da un dizionario

Percorso etimologico-intertestuale dal lavoro alla perfetta letizia francescana

di Fabrizio Zaccarini
vicemaestro dei postulanti cappuccini dell’Italia del Nord

Zaccarini 1La stessa radice

I suoni si annodano in modo così insistente e raffinato che non posso trattenermi dal pensare che nel nodo sia nascosto un pensiero nuovo e portatore di nuovi inizi. Il termine italiano lavoro è figlio del latino labor, laboris, che significa anche “sforzo, fatica, travaglio, malattia”.

Dalla stessa radice derivano anche due verbi, labo, labas, labavi, labatum, labare, “tentennare, essere labile, stare per cadere” e labor, laberis, lapsus sum, labi “scendere, scivolare, cadere”. Tentare di ricavare una definizione chiara e distinta di lavoro da questo sorprendente intreccio di sillabe e significati, potrebbe condurre a un risultato di inattesa aderenza alla nostra realtà socio-economica. Infatti, il lavoro risulterebbe essere quella labile cosa che espone a inquietanti precarietà, richiede profusione di molti sforzi e prolungate fatiche, in cambio di vertiginose discese di status, non programmabili scivolate professionali e anche rovinose cadute aziendali. Insomma, il lavoro sarebbe un vera e propria malattia. Sì, ma una malattia che, essendo anche un travaglio, e cioè un parto, è passaggio necessario verso la generazione di vita nuova.
Ma che significa tutto questo? Bè, intanto saranno utili, credo, due tracce da inserire in una mappa tutta da disegnare per orizzontarsi tra queste bizzarre parentele semantiche. La prima, costituzionale: «l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Devo immediatamente aggiungere che scrivendo queste parole i padri costituenti non intendevano escludere dal fondamento della comunità civile persone come le casalinghe (molto numerose nel 1946), i bambini e i matti, i disabili e gli ammalati, i frati e le suore. Tutta gente che, non percependo reddito, facilmente viene inquadrata nella categoria degli “elementi non produttivi”, ergo, non lavoranti. Essi avevano ben presente il retroterra etimologico a cui la parola italiana lavoro attingeva. Seconda chiave, evangelica: «la donna, quando partorisce, è nel dolore, (nel travaglio, dunque nel… lavoro) perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21).
Il vangelo, la lingua latina e la costituzione italiana ci chiamano a camminare su un itinerario condensabile in cinque tappe, Lavoro-Fatica-Travaglio-Vita-Gioia, per scoprirci, in quanto lavoratori - e stando al latino tutti lo siamo con o senza reddito - concreatori del Creatore; esploratori gioiosi, sia di percorsi di civile convivenza, sia di cammini ecclesiali in comunione di fede. Osservazione mediamente sintetica questa, che non mi libera da una preoccupazione che, diverse righe fa, ha iniziato a pesarmi. Tra i pochi lettori che, meritoriamente, stanno continuando a leggere, mi sembra che debba ovviamente essercene almeno uno che mi chieda, ormai spazientito, “ma me lo dici sì o no dov’è che vuoi portarmi?”. Ecco, fratello spazientito: a me era stato chiesto di commentare queste parole di Francesco: «E si guardino i frati dal mostrarsi tristi all’esterno e rannuvolati come gli ipocriti, ma si mostrino gioiosi nel Signore e lieti e cortesi come si conviene» (FF 27). Ora, il fatto è, fratello caro, che queste parole poste alla fine del capitolo VII della Regola non bollata intitolato «Del modo di servire e di lavorare», mi hanno indotto a sfogliare le pagine di un vecchio dizionario di latino e di lì, passo passo, all’itinerario già descritto.

Zaccarini 2In posizione subordinata

All’inizio del capitolo Francesco esordisce così: «Tutti i frati, in qualunque luogo si trovino presso altri per servire o per lavorare, non facciano né gli amministratori né i cancellieri, né presiedano nelle case in cui prestano servizio» (FF 24) e il paradosso si fa anche più ostico. Prima si chiede ai fratelli di lavorare sempre e ovunque in posizione subordinata e poi si mette la ciliegina sulla torta chiedendo loro di farlo gioiosamente. Se la testimonianza deve essere evangelica, infatti, bisogna che la condizione sociale dei marginali sia assunta, sì, ma con la gioiosa e cortese leggerezza di chi sa di essere in condizione subalterna perché serve alla corte di un Re e Padrone che per liberare noi si è fatto servo e non a quella di un qualsiasi servo che, come ogni servo che si rispetti, sulla scacchiera della vita e delle relazioni, muove ogni mossa con l’obiettivo di dare scacco matto a chi detiene potere su di lui e diventare potente al posto suo.
La voce di Francesco ha un tono profondamente inclusivo e pasquale. «Mostrarsi gioiosi nel Signore» mentre si lavora in posizione subalterna significa dare un’espressione incarnata nella concretezza delle nostre occupazioni e relazioni quotidiane, alla gratitudine mossa dal Creatore del mondo che autolimita la sua onnipotenza per chiamare alla vita una creatura capace di corrispondere liberamente (e anche di non corrispondere) al suo amore. La dinamica amante con cui Dio ci ha espresso il suo perdono nel corpo del figlio Gesù adagiato sulla mangiatoia e sulla croce e, infine, in quel sepolcro che rimane imprevedibilmente vuoto, è il fondamento della vocazione minoritica, il motivo propulsore di quel restare subalterni a tutti per essere liberi di servire Dio e in lui i più piccoli.

Di notte nei bar del centro

Il dinamismo pasquale libera e dilata la vita, abbraccia i segni della condanna e della morte e li rende parti integranti di un unico movimento di danza. Ecco perché Francesco al guardiano stanco delle insubordinazioni dei frati che gli sono stati affidati e sta pensando di rifugiarsi in un eremo, senza mezzi termini può chiedere «quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo ritenere come una grazia» (FF 234). E, si badi bene, non si tratta di un invito ad iscriversi alla gara masochistica dei 110 dolori, che più ce n’è e meglio è, ma di entrare nella stessa danza di Dio, l’unica autenticamente gioiosa perché impegna ad affrontare con positività e speranza, liberi da pretese sulla libertà altrui, anche gli insopprimibili (e spesso preziosi!) conflitti inter-relazionali. Perciò, nella voce di Francesco avverto anche una nota inclusiva. Non solo perché si rifiuta di escludere un solo fratello dal suo orizzonte relazionale, fosse anche quello che sogna, pensa e progetta in contrapposizione a lui, ma anche perché la sua è la voce di chi è tutto teso ad accogliere tutto ciò che viene ed è venuto dal Padre, semplicemente perché da lui viene ed è venuto. Questo è il lavoro a tempo indeterminato e il duro sforzo, la prima fatica e il fecondo travaglio, questa è tutta la gioia, vera e perfetta, di Francesco: lasciarsi rendere dallo Spirito integralmente figlio davanti al Padre e radicalmente fratello davanti al fratello. Per questo egli apprezza tanto, io lo so!, Vasco Brondi che, nella canzone “Padre nostro dei satelliti”, canta: «Dio onnipotente non proteggermi da niente, sia fatta la tua volontà, così in cielo come di notte nei bar del centro». E se il lavoro e la gioia della fraternità davvero dovessero partire dai bar del centro non raggiungerebbero presto tutta la città, da una periferia all’altra?