Continua e si conclude in questo numero di “In missione” la lunga intervista a fra Matteo Ghisini, il ministro provinciale dei frati cappuccini dell’Emilia-Romagna, per capire verso quale tipo di missione si sta incamminando l’Ordine. Si aggiungono due voci missionarie interessate dai cambiamenti: fra Raffaello Del Debole e fra Maurizio Gentilini.

Saverio Orselli

 Mutamenti di geografia francescana – seconda parte

Intervista a Matteo Ghisini, ministro provinciale

Rubrica in Missione intervista Ghisini 1 - dida bambini etiopici foto di Ivano PuccettiDopo aver fatto il punto della situazione in Etiopia, Turchia e Georgia, continuiamo nel giro delle missioni in cui sono impegnati i cappuccini della nostra provincia e allarghiamo lo sguardo verso orizzonti nuovi.

In effetti, un altro ambito su cui si è aperto un discorso interessante dal punto di vista missionario riguarda il Nord Europa. In questo caso non è coinvolta una Provincia in particolare o un’area più vasta, come è stato nel caso della Georgia, ma tutta l’Italia.

Dall’1 al 5 dicembre 2014 abbiamo fatto un incontro europeo a Fatima, con una cinquantina di frati presenti, tra cui tutti i provinciali europei, i custodi e i delegati - erano presenti anche fra Pavel dalla Turchia e fra Filippo dalla Georgia - oltre ai rappresentanti delle varie conferenze a livello mondiale, c’era quindi chi proveniva dall’Africa, dalle Americhe, dall’Asia… Naturalmente era presente il Ministro generale e tutto il suo Consiglio, proprio perché si tratta di un progetto a cui tengono molto e nasce da una realtà al tempo stesso semplice e complicata: in sostanza, diverse zone del Nord Europa sono da evangelizzare. Guardando la realtà e il carisma, siamo un po’ preoccupati perché ci sono intere nazioni in cui sta scomparendo la presenza cappuccina: pensiamo all’Olanda, al Belgio, alla Francia, alla Germania, all’Irlanda, all’Inghilterra, alla Spagna… Insomma, in questi Paesi la situazione non è certo positiva.

Per quanto ne so, non è un problema “cappuccino” in particolare, ma riguarda l’intera cattolicità.

Rubrica in Missione intervista Ghisini 2 - dida campo volontariato ad Antiochia 2013 foto archivio missioniSiamo consapevoli che è un tema ben più vasto, ma noi ci siamo focalizzati sulla situazione del nostro carisma. La situazione è grave e può essere guardata con distacco, passività e rassegnazione dal resto del mondo oppure, dice il Ministro generale, con l’idea di darci una mano a vicenda. Così hanno puntato su due aspetti fondamentali: innanzitutto chiedere ai Paesi che stanno vivendo questo problema se hanno piacere e se desiderano un aiuto e, d’altro canto, hanno chiesto alle nazioni che sono ancora “in forma” - l’Italia dove ci sono ancora 2000 frati, la Polonia, tutta l’Europa dell’Est - se sono disponibili a mandare dei frati. Perché l’idea è che l’Europa aiuti l’Europa, più che chiamare persone da altri continenti per cui l’impegno sarebbe molto più faticoso. Non si tratta di un lavoro facile, ed esperienze passate insegnano che non basta la disponibilità, perché si può fallire a causa delle diverse mentalità. In questo percorso, pare ci siano degli spiragli per creare delle fraternità “internazionali”, ma soprattutto si è detto che dovranno essere delle fraternità significative. In questo senso sono stati proposti degli esempi che già vivono realtà interessanti. Penso ad esempio alla fraternità di Clermont Ferrand, dove da sette o otto anni i francesi stessi stanno riproponendo uno stile di vita cappuccino che potremmo definire tradizionale, non troppo diverso da quel che accade in una buona parte dei conventi in Italia, con una particolare attenzione all’apertura della chiesa alla gente, la presenza per le confessioni, l’abito, l’orto, una significativa vita di fraternità, un po’ di evangelizzazione. In questo senso, la fraternità di Clermont Ferrand, che da qualche anno ripropone questo stile, ha potuto constatare che i frutti ci sono, con la gente che si mostra contenta e attratta; oltretutto si tratta di una città universitaria e anche gli studenti hanno dimostrato di apprezzare questo stile. In Francia forse ci si trova di fronte a un certo risveglio, anche perché una volta toccato il fondo o quasi, si può solo risalire. Ogni diocesi si sta organizzando per sostenere i laici nella missionarietà, con équipe formate proprio per questo compito. A Clermont Ferrand i frati hanno cominciato a collaborare con dei giovani francesi per organizzare le missioni al popolo. Ci sono dei percorsi di catechesi che si stanno avviando - in Italia adesso sono molto diffusi i Dieci Comandamenti - e qualcosa di simile si sta diffondendo in Francia a livello parrocchiale, anche se non è esattamente la stessa cosa, ma qualcosa di più vicino alla sensibilità locale. Ecco, anche a causa dell’invecchiamento, i cappuccini francesi hanno chiesto aiuto e due giovani cappuccini italiani hanno risposto alla richiesta e sono andati. Questa potrebbe essere la strada per rivitalizzare anche altre realtà in difficoltà, in una forma missionaria nuova.

Rubrica in Missione intervista Ghisini 3 - foto di Rita Willaert E della presenza missionaria nella Repubblica Centrafricana cosa puoi dirmi?

Anche il Centrafrica è una Custodia generalizia, nella quale noi siamo presenti in questo momento con due missionari, fra Antonino Serventini e fra Antonio Triani, entrambi nella capitale Bangui, coinvolti in una realtà segnata dalla guerra che ha sostanzialmente distrutto Gofo, dove c’era un bel centro catechistico e un dispensario… Nei giorni scorsi ho sentito il Consigliere generale che è dell’area africana e che ha visitato nelle scorse settimane proprio il Centrafrica e mi diceva che gli hanno proprio sconsigliato di andare a visitare Gofo, perché non è sicuro nemmeno se si è scortati. Continuiamo a sostenere quella realtà anche attraverso i due frati presenti: fra Antonio che è medico sperava di poter tornare al suo dispensario per rimetterlo in funzione, ma non è stato possibile. Qualcosa, come medico, riesce a farlo anche nella situazione attuale: i nostri conventi sono diventati dei veri e propri accampamenti di sfollati, per cui ci sono tutti i problemi derivati da un sovraffollamento. Nel giardino del convento ci sono varie centinaia se non migliaia di persone accampate, e non puoi fare altro che gestire l’emergenza, anche solo da un punto di vista igienico-sanitario. C’era rimasto a Gofo un nostro fedele che manteneva un minimo di attività sanitaria all’interno del dispensario, sostenuta da invii periodici di medicinali dai frati dalla capitale, ma si tratta di una attività molto rischiosa. È una situazione un po’ fragile quella del Centrafrica oggi, per i missionari e per tutta la popolazione, e mi dispiace non essere riuscito a visitare la missione, a causa dello scoppio della guerra.

Visto che, a parte il Centrafrica, hai visitato tutte le altre missioni e, in generale, si tratta di realtà che stanno affrontando cambiamenti significativi, come ti sembra che i frati impegnati nelle varie missioni si stiano confrontando con queste novità?

Noi siamo cresciuti con la massima di Bernardo da Andermatt, il Ministro generale dal 1884 al 1908, che aveva lanciato un nuovo statuto sulle missioni, che sostanzialmente diceva “una Provincia, una missione”. Ogni Provincia doveva avere la propria missione, meglio ancora se più di una… Naturalmente con un certo orgoglio! Adesso questo modello non funziona più, sono cambiati i tempi e si può vedere la situazione come un inesorabile declino. Lo stesso fra Renzo al capitolo provinciale è intervenuto sostenendo che, in un certo senso, la missione è morta, perché il Dawro entra nell’Etiopia e la Turchia va verso un coinvolgimento maggiore dell’Ordine. A questa visione un po’ negativa, cerchiamo di contrapporre l’aspetto positivo di unire le forze per collaborare insieme, in una sfida che, se vogliamo, è anche più difficile. Certamente gestire una realtà da una Provincia è più semplice, un po’ perché hai la stessa mentalità, c’è uno scambio più stretto… Se le Province a cui fare riferimento si moltiplicano, allora il rapporto diventa più complicato, perché deve poter dire la sua il provinciale della Polonia, così come quello dell’India, magari con stili diversi che si verificano anche tra i frati che vivono sul posto la missione. In realtà è una sfida che ci troviamo ormai anche fuori dalla porta del convento, perché la società stessa è molto cambiata e qualcuno potrebbe dire che si tratta di un declino, con gli italiani che si trovano a dover convivere con nigeriani, rumeni, cinesi e tutti gli altri… Oppure, con uno sguardo più positivo, si può prendere atto che questa è la storia, una storia fatta di migrazioni, e quindi conviene confrontarsi con questa realtà per capire cosa fare. Si stanno già facendo fraternità internazionali qui in Italia: in Emilia-Romagna abbiamo due frati etiopici, un colombiano, un cinese, e sicuramente vi saranno sempre più possibilità di incontro. In Nord America, ad esempio, hanno molte vocazioni, dovute anche ai latinoamericani che sono emigrati: questo è uno scenario in movimento, al quale dobbiamo prepararci. Non è un cammino facile questo, ma non possiamo tirarci indietro. A Mersin, in Turchia, c’è in atto un esperimento che va in questa direzione, con la fraternità composta da un frate indiano, uno turco e uno italiano… speriamo bene! A Istanbul è la stessa cosa, con fra Pavel che è polacco, fra Yunus che è turco, fra Michele e fra Gregorio che sono italiani.

Come stanno vivendo i missionari questa situazione? In Turchia mi sembra abbastanza bene, con anche un certo ricambio, che si sta realizzando in questi ultimi anni, con i frati più anziani che stanno rientrando e qualche frate giovane che prende il loro posto, e quando hai sette o otto frati giovani con cui lavorare è importante, perché colgono prospettive nuove. In Etiopia la situazione è diversa, manca il ricambio e forse anche il passaggio è più impegnativo, anche se in un certo senso è il riconoscimento di un lavoro positivo arrivato a compimento.

Rubrica in Missione intervista Ghisini 4 - dida la nostra missione in centrafricaCon fra Renzo, fra Raffaello e fra Maurizio ho avuto la possibilità di parlare e ho in qualche modo registrato i diversi modi di affrontare questa fase nuova, mentre non mi è stato possibile incontrare nessuno della Turchia e m’incuriosisce molto sapere come stiano affrontando questa situazione.

La Turchia sta facendo dei passaggi importanti: prima della visita a Istanbul, ho partecipato in ottobre a una due-giorni promossa dall’URT (Unione Religiosi Turchi: 120 missionari appartenenti a varie congregazioni religiose): è stata l’occasione per riflettere su una realtà che cambia rapidamente. Un incontro molto interessante e organizzato molto bene, con traduttori simultanei e la lingua francese scelta come quella ufficiale, che mi ha fatto pensare che forse noi in questi anni siamo rimasti un po’ fuori, rispetto a questi rapporti, al margine di questo movimento. Per questo ho spinto i frati a partecipare all’evento che si terrà in giugno - al quale sarò presente anch’io - per tutti i religiosi presenti in Turchia. Saranno degli esercizi spirituali promossi dall’URT a Iskenderun ai quali è importante partecipare per favorire la conoscenza e la condivisione. Ci sono tante realtà diverse impegnate in attività importanti e sarebbe davvero assurdo fermarsi a pensare solo ai cappuccini, come se la missione fosse solo “nostra”, quando i presenti sono tanti. Ci sono altri francescani, gesuiti, domenicani, salesiani e, per quanto la situazione non sia facile, considerato anche il fatto che i vescovi sono ai limiti di età e ci sono stati degli assassinii, dobbiamo considerare gli aspetti positivi che la stessa fragilità vocazionale comporta con il calo dei numeri, primo fra tutti il bisogno di metterci insieme.

In conclusione un commento sull’attività dei volontari che consentono di inviare notevoli aiuti ai missionari, per supportarne le attività.

Da una parte mi viene subito in mente un senso di gratitudine e di ringraziamento per il tempo e per le energie che tante persone spendono a favore dei centri missionari e delle missioni; dall’altra sento un bisogno di formazione, cioè non basta lavorare di braccia… Poi in realtà ci sono persone che sentono di più una dimensione piuttosto che un’altra, però credo che aiutare le missioni, promuovere questa missionarietà sia anche un lavoro di testa, di formazione, di crescita personale e spirituale. Come invitiamo i missionari che sono là a non esaurirsi nel “fare”, ma anche a tenere d’occhio la dimensione formativa spirituale, così anche qui è importante che i nostri centri missionari, oltre alla dimensione del caricare un container o scaricare un camion o fare il mercatino - che se vogliamo è più facile e coinvolgente, più immediato e gratificante - diano spazio alla dimensione della crescita, attraverso letture, riflessioni che stimolino alla conoscenza della missionarietà. Se anche non tutti sono portati verso questa impostazione è importante impegnarsi per andare in questa direzione.