La road map di Papa Francesco

Le parole del pontefice autenticate dal suo rivolgersi alle persone

di Enrico Galavotti
docente di storia del cristianesimo all’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

Galavotti 01Certezza cristologica

A chiunque abbia modo di frequentare abitualmente le librerie non sarà sfuggito il dato della enorme produzione di libri relativa a papa Francesco, che affastella mese dopo mese biografie, raccolte di scritti precedenti all’elezione e antologie di interventi successivi ad essa.

Certo, in parte il fenomeno si spiega con la curiosità di sapere di più del vescovo di Roma eletto il 13 marzo 2013, indubbiamente molto meno celebre di quanto non fosse Joseph Ratzinger al momento della sua elezione nel 2005. Ma la ragione di questa vera e propria efflorescenza di carta sta soprattutto nell’oggetto in sé: non tanto per tentare di rispondere alla domanda su chi era e da dove viene Jorge Mario Bergoglio, quando nell’enorme interesse che questo papa sta suscitando man mano che il suo pontificato si dispiega. È un interesse che si alimenta anzitutto nel modo in cui questo nuovo papa si è presentato e continua a presentarsi al mondo. Don Giuseppe De Luca, mezzo secolo fa, scriveva di Pio XII come di un «bassorilievo assiro», ad indicare appunto come papa Pacelli avesse sistematicamente deciso di presentarsi ai fedeli: per essere il vicario di Cristo quel papa aveva infatti immaginato di doversi presentare come una persona irraggiungibile, comunque diversa dagli altri cristiani: e proprio per questa ragione la diffusione piratesca delle sue foto sul letto d’agonia, attaccato ad una maschera ad ossigeno, fece particolarmente impressione, perché appunto restituiva a tutti la sua umanità come uno schiaffo. Non è, evidentemente, la scelta di Francesco, che invece ha dato e dà continui segnali di una determinazione irrevocabile a desacralizzare la figura del papa, ma questo per ricondurla all’essenza della sua funzione che è quella, come ricordava Giuseppe Dossetti trent’anni fa, di «custodire la certezza cristologica».

Galavotti 02L’importanza dell’omelia

L’interesse per Francesco è quindi alimentato soprattutto dagli insegnamenti e dalle parole che nel corso di questi primi due anni di pontificato hanno delineato la rotta che il papa che viene dall’Argentina ha inteso e intende seguire. È curioso osservare come del pontificato di Giovanni Paolo II, che pure si è dispiegato per oltre un quarto di secolo, sia difficile, a distanza di un decennio dalla sua conclusione, isolare dei nuclei tematici o delle “parole d’ordine” del suo magistero, che pure ha cumulato una impressionante mole di tomi a stampa; e in qualche modo lo stesso fenomeno si può riscontrare rispetto al pontificato di Benedetto XVI. Non così per Francesco, che sin dal suo servizio episcopale a Buenos Aires ha sviluppato una particolare attenzione al ruolo del vescovo come catecheta, sviluppando così anche una serie di strumenti adeguati per ricomunicare il messaggio evangelico. Tutti coloro che partecipano abitualmente alle liturgie cattoliche sono fatalmente incappati, prima o poi, nell’omelia improvvisata, che anziché spiegare il vangelo finiva per banalizzarlo se non addirittura per adulterarlo; Francesco, da questo punto di vista, ha inteso anzitutto costituire un esempio, facendo in modo che tutte le sue omelie, incluse quelle tenute a Casa Santa Marta di fronte a poche decine di persone, siano un modello di efficacia comunicativa per rendere evidente a tutti l’incorruttibile attualità e freschezza del messaggio evangelico. Nella Evangelii gaudium, vera e propria road map del suo pontificato, Francesco è stato inequivocabile, ricordando l’importanza fondamentale dell’omelia, «il momento più alto del dialogo tra Dio e il suo popolo, prima della comunione sacramentale». Ma Bergoglio sta mostrando, più in generale, una cura particolarissima nell’uso della parola, a conferma della sua convinzione radicata che è proprio la parola seminata, più che i grandi raduni o la gestualità ad effetto, ad avere una presa maggiore nella coscienza delle persone e a garantire, prima o poi, i suoi effetti benefici. È significativo che Bergoglio abbia allora fatto ricorso più volte a dei neologismi, che non sono il sintomo della difficoltà di un non italiano a trovare le parole adatte, quanto la determinazione a voler radicare con ancora maggior forza concetti che altrimenti rischiano di essere ignorati o sottovalutati: così non c’è dubbio che dire «misericordiare» abbia maggior efficacia di ogni termine analogo; o che parlare di «inequità» per descrivere gli effetti dei modelli economici che dominano il mercato mondiale sia decisamente più ficcante che non il ricorso a una parola come sperequazione; e che dire che la camorra «spuzza», comunica un senso di rigetto che i suoi uditori, napoletani e non, comprendono all’istante.
È interessante anche osservare come Francesco abbia poi colto le occasioni più diverse, e solo apparentemente scontate, per procedere a questa semina, come poteva essere il messaggio inviato a una diocesi o il discorso tenuto per l’accreditamento di qualche nuovo ambasciatore presso la Santa Sede. Ne sanno qualcosa i maggiori collaboratori del papa quando in occasione del tradizionale discorso di auguri il papa, più che fare un discoro sui massimi sistemi, ha sviluppato una drastica catechesi sulle tentazioni a cui sono sottoposti gli uomini che sono al servizio del successore di Pietro: e le circostanze in cui si è concluso il pontificato di Ratzinger ci indicano che quello di Francesco non era un esercizio di retorica, ma era un messaggio rivolto a persone che hanno perso di vista il senso ultimo della loro vocazione. Così anche i tweet hanno acquistato un nuovo significato: non più e non solo l’adeguamento dei media vaticani a una moda diffusa, ma il canale attraverso cui Francesco riassume temi trattati più diffusamente nello stesso giorno e che finiscono, in ragione della loro ermeticità, ad essere particolarmente simili a quei versetti del vangelo su cui il papa mostra di applicarsi con particolare cura giorno dopo giorno.

Rivolgersi a persone vere

Ma c’è un dato che spiega l’attenzione che le parole di Francesco continuano ad ottenere e che non è realizzabile artificialmente: vale a dire la sua credibilità. Non basta parlare di gioia e di carità, anche con dotti riferimenti teologici, se non si è capaci poi di mostrare plasticamente al mondo di vivere in prima persona queste dimensioni essenziali della vita cristiana; così come non si può proclamare la beatitudine della povertà, se non si è capaci poi di avvicinarsi alle «pecore» e al loro «odore». È proprio questo che rende le parole di Francesco attuali e credibili: il fatto che non le rivolga a masse indistinte, fossero anche i «papaboys» o i membri di qualsivoglia movimento, ma alle singole persone che vivono all’inizio di questo tormentato XXI secolo.