Povertà anche nel linguaggio

Al di là di paralleli con altri ordini, la predicazione francescana cercava di mantenersi povera

di Samuele Giombi
storico

Giombi 01 - dida Fra Pietro Maranesi al festival francescano  foto di Ivano Puccetti2014 I primi orientamenti

Chi ha studiato la predicazione nell’esperienza storica francescana e in particolare cappuccina, ha individuato il succedersi di periodi e forme diversi.

Vi è anzitutto un periodo iniziale più conforme al principio delle origine francescane. Secondo l’impostazione di Francesco (annunziare «i vizi e le virtù, la pena e la gloria»), il predicare conserva quel taglio eminentemente morale-penitenziale che era naturalmente collegato anche alla tradizionale distinzione circa l’oggetto della predicazione: dottrinale (de fide), riservata ai chierici; morale (de moribus), aperta anche ai laici.
Segue un successivo momento evolutivo tra fine XV e XVI secolo. A questo momento appartengono figure quali Bernardino Tommasini da Siena, detto Ochino. Il primo argomento della sua predicazione, collegato alla spiritualità del cosiddetto evangelismo italiano, è il significato di Cristo Crocifisso e il valore della penetrante conoscenza di lui ai fini della riforma interiore dell’uomo e di quella istituzionale della Chiesa. E alla luce di questa spiritualità si spiegano anche molte caratteristiche del suo modo di predicare: la tendenza a rendere il senso biblico semplice e immediato del testo, senza indulgere troppo in citazioni ma riproponendo la Parola in un modo piano e discorsivo che potesse farla gustare al popolo, con un andamento molto libero e semplice, ove è possibile distinguere una prima parte più teorico-speculativa di taglio teologico ed una seconda più pratico-concreta con applicazioni morali; anche le nozioni di tipo teologico sono sempre collocate in un contesto fortemente biblico ed evangelico.
Gli anni del concilio di Trento vedono una nuova fase della predicazione francescana. Dopo il Concilio abbiamo prediche a stampa di argomento alto su temi oggetto della controversia teologica (la predestinazione), ad esempio da parte del cappuccino Girolamo Finucci da Pistoia. Sempre dal forte impegno teologico sono inoltre le prediche di Mattia Bellintani da Salò: la Croce e la Passione di Cristo assieme all’invito a predicare i vizi e le virtù costituiscono classici motivi ricorrenti (ripresi dalla predicazione penitenziale-morale della tradizione francescana, ma rilanciati dalla lettera del decreto tridentino), cui si unisce l’insistenza sulle cose da credere secondo le definizioni dottrinarie conciliari (il libero arbitrio, la necessità delle opere, il culto dei santi).

Giombi 02 - dida predicatori francescano di oggi foto di Ivano PuccettiAnnunciare l’Evangelio

Tratti simili ritornano nelle prediche tenute dai cappuccini durante le missioni popolari fra XVIII e XIX secolo. La predicazione francescana e cappuccina presenta dunque tratti non dissimili da quelli tipici della storia della predicazione in genere. Ma la storia può anche indicare, comunque, aspetti caratteristici di un modo francescano e cappuccino di predicare. Alcune fonti sono particolarmente significative al riguardo. Così, dalle prime costituzioni cappuccine del 1529 fino a quelle successive, trova conferma la programmatica intenzione di rifarsi alla Regula bullata e allo stesso esempio personale praticato da Francesco: una predicazione che niente altro vuole predicare se non l’«Evangelio del Signore» (e per questo tende a definirsi “evangelica”) e vuole farlo seguendo il modello della predica morale-penitenziale, inducendo i fedeli a penitenza col mostrare loro «i vizi e le virtù, le pene e la gloria».
In effetti, anche se la materia teologica non è affatto estranea al predicatore francescano, J. O’Malley ha voluto vedere proprio nel «moral purpose» la caratteristica tipica di tutta la tradizione predicatoria francescana. Questa prevalenza morale c’era anche nelle prediche francescane quattrocentesche di Bernardino da Siena (su tanti aspetti di vita concreta ed etica del lavoro). Tuttavia nuova prospettiva assume alla luce dei decreti tridentini sul predicare. Inoltre, se già la precettistica cappuccina iniziale recepiva una sorta di tensione fra predica dell’Evangelo e applicazione ai vizi e virtù dei fedeli, fra Bibbia e catechismo, dopo Trento fra teologia e morale, dottrina e penitenza viene realizzandosi una sintesi in cui il secondo elemento del binomio sembra inglobare il primo; ma a ben vedere questa evoluzione tutt’altro che costituire un superamento delle tesi teologiche recuperava in pieno tutti i principali assunti della dottrina tridentina, dal momento che a venire esaltati erano il valore dei sacramenti, il ruolo del purgatorio, finalizzando il tutto verso la necessità di ben operare ai fini della salvezza eterna.

«Cum brevitate sermonis»

Le iniziali costituzioni cappuccine gettano luce circa il modo in cui l’Ordine sembra volersi rapportare ad uno dei problemi più dibattuti nella trattatistica e precettistica coeve sul predicare: cioè l’atteggiamento da assumere verso lo studio dell’eloquenza e l’uso delle risorse retoriche da parte dell’“oratore” cristiano che continua a definirsi anzitutto un semplice predicatore «evangelico». È vero che nel secolo XVII anche i sermoni di diversi predicatori francescani recepiscono gli influssi del concettismo secentesco, con il suo culto per la parola ornata, le sue arditezze metaforiche, le sue ricercatezze e curiosità erudite (incorrendo nelle censure della Sacra Congregazione dell’Indice per i timori di confusione che la corretta esposizione della dottrina cattolica avrebbe potuto subire per opera di metaforisti troppo arditi). Tuttavia, quello francescano resta in prevalenza un predicare che pare schierarsi su un polo per così dire “rigorista” rispetto ad altri ordini religiosi.
Schematizzando, si potrebbe infatti dire che, rispetto alla linea gesuitica tendente a sottolineare le ragioni della retorica pur subordinandole alla preminenza delle cose sacre e all’utilità dei contenuti, la teorica francescana e cappuccina interpretano una prospettiva più rigida. Sono aspetti che emergono dalle primissime ordinazioni di Albacina del 1529 o dalle prime vere e proprie costituzioni del 1536: ove, nel denunciare le blandizie della «eloquentia humana», ad essere colpiti sono tanto l’inserimento di allegorismi fuori luogo e facezie cavate dalle fonti pagane quanto l’abitudine di trattare questioni di teologia scolastica cariche di sillogismi e citazioni dotte, per raccomandare piuttosto parole «nude, pure, semplice, umile et basse, niente di meno divine, infocate et piene d’amore, a exemplo di Paulo vaso di electione el quale predicava non in sublimità di sermone o di eloquenza humana ma in virtù di spirito», nel nome di una ricorrente ripresa della Regola di Francesco sulla brevitas sermonis («et secondo che ’l nostro Padre Seraphico ne la regola ci admonisce: “Annuncient vicia et virtutes, poenam et gloriam cum brevitate sermonis”»). Sembra quasi che il peso attribuito dal nuovo Ordine ad un’interpretazione più forte della povertà francescana si trasferisca dal campo della scelta di vita personale ad una certa di idea di povertà e essenzialità del linguaggio e dell’eloquenza.

Dell’Autore segnaliamo

Libri e pulpiti. Letteratura, sapienza, storia religiosa nel Rinascimento, Carocci, Roma 2001.