Un racconto di poche parole

Cogliere Dio nello sviluppo della relazione, limitando le parole su di lui

di Stefania Monti
biblista, Presidente della Clarisse cappuccine italiane 

Monti 01L’inganno della moltiplicazione di parole

«Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi… Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» (Tractatus, 6.53-7).

C’è da chiedersi se Ludwig Wittengstein avesse letto e studiato Qoèlet. L’ultima sua affermazione, spesso usata banalmente e fuori contesto, aldilà della verità che esprime sotto il profilo filosofico, penso che a Qoèlet sarebbe piaciuta.
Tra la fine del cap. 4 e l’inizio del cap. 5 egli ammonisce infatti: «Quando pronunci parola davanti a Dio, non essere precipitoso con la bocca, e frettoloso col pensiero: Dio è nei cieli e tu stai sulla terra. Perciò, poche parole!» (5,1). O meglio: quasi niente.
Il contesto fa vedere che Qoèlet si riferisce alla preghiera. L’uomo conosce così poco del suo destino che neppure sa che cosa sia conveniente domandare (cf. Rm 8,26) e ha una visuale così corta sulle umane vicende che sarebbe più prudente contare le parole. Meglio è andare al tempio «per obbedire» anziché offrire sacrifici senza senso che rischiano il magismo o l’idolatria. Le parole possono finire con l’ingannare chi le moltiplica, convinto di esaurire in esse e con esse il proprio rapporto con Dio.
C’è invece una relazione necessaria tra preghiera e giustizia, come spesso ricordano i profeti, così come tra culto e giustizia, senza la quale l’uno e l’altra possono sembrare a Dio una semplice provocazione o una chiamata in giudizio (cf. Sal 49/50). Non si tratta dunque soltanto di non sprecare parole, come ammonisce Gesù (Mt 6,7), ma di elevare una preghiera coerente con la vita.
Qoèlet parla infatti del «sacrificio degli stupidi» (4,17), di coloro cioè che praticano un culto dissociato da una vita retta. Il fatto poi che egli parli esplicitamente di “obbedienza” fa pensare all’ammonimento rivolto a Saul: «Obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti» (1Sam 15,22).

Qui sta tutto l’uomo

Se poco contano le vittime, tanto più sarà meglio andarci piano con le parole che, tra il resto, non costano nulla; e tanto più ancora sarà meglio andarci piano con le parole quando si parla di Dio.
Questo Qoèlet non lo dice, ma è facile immaginarselo. Che cosa si potrà mai dire di colui che è nei cieli, mentre l’uomo sta sulla terra? Il senso di distanza è marcato.
Per Qoèlet, se ripensiamo al suo «nulla di nuovo sotto il sole» (1,9), il cielo è come una lastra stesa sulla testa degli umani che rende impenetrabile il mondo divino. Ricorda il cielo che si vede appunto in Israele così azzurro in modo uniforme e senza nubi, nella stagione secca, da sembrare una cupola. In ebraico si chiama raqiya’, il firmamentum di cui si parla nella Genesi (1,6) che divide le “acque superiori” dalle “acque inferiori”, il mondo divino da quello umano.
L’unico modo che un uomo ha per avvicinarsi a Dio è detto alla fine del Qoèlet. Dopo aver messo in dubbio molte esperienze e aver detto che, anzi, poco contano, e che il sapere aumenta solo il dolore e che val più godere le gioie della vita, Qoèlet ha una conclusione da pio israelita che ci coglie di sorpresa (12,13): «Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo (ki zeh kol ha-ʼadam)».
Proprio in quel “qui sta tutto l’uomo” è la motivazione delle poche parole con cui rivolgersi a Dio o parlare di lui. L’uomo, il terrestre, è una storia e delle azioni che nascono da conoscenza, sentimenti, volontà, anche da condizionamenti, ma sono comunque determinanti perché possa porsi di fronte a Dio. Le parole, appunto, costano e contano poco.
È vero che parte della critica considera questo versetto una legittimazione canonica di Qoèlet, dopo le sue amare considerazioni sul vivere umano. Tuttavia proprio perché canonico questo versetto ha tutto il suo senso. “Temere Dio”, avere riverenza e venerazione è atteggiamento più volte consigliato da Qoèlet (3,13-14; 5,6; 7,15-18; 8,12-13) e un saggio consiglia sempre, non ordina. Egli ci porta a leggere l’intero libro in un’ottica diversa: non è con il cinismo che si può affrontare la vita, ma nel contesto di un’alleanza, un dialogo, una relazione per quanto difficile.
Ma si è detto dello scarso valore delle parole: con grande coerenza, la Bibbia non parla di Dio, chi è o come è, al modo di un catechismo. Racconta piuttosto ciò che ha fatto o fa o farà. Lo stesso suo nome rivelato a Mosè (Es 3,14) non riguarda né l’essenza né altre idee filosofiche, ma semplicemente la storia di un dialogo tra Dio e il suo popolo. Egli dice di sé: «Io sarò quello che ero» - il Dio dei padri che è e sarà con Mosè passo dopo passo.

Monti 02Solo tre parole

Ha scritto Dante Lattes che la Bibbia è il libro del popolo; in effetti non è teologia e neppure spiritualità, tanto meno un libro di pietà. È semplicemente un racconto che si autocommenta con preghiere e riflessioni sapienziali, a volte di grande fascino letterario, a volte retorico, epico e patetico, tragico e ironico: ha tutte le caratteristiche del racconto e dovremmo leggerlo facendo tesoro delle sue preziosità letterarie, perché è tutto un popolo che si racconta.
Certamente dalle Scritture si traggono teologia e spiritualità, ma questo è un lavoro nostro, sono le nostre parole, appunto, e dovremmo stare attenti a non moltiplicarle a scapito del Testo che chiede invece di essere letto, ascoltato e interpellato con le giuste domande che portano all’interpretazione.
Questa storia ci propone vie di giustizia: in ebraico non esiste un termine che corrisponda al nostro “dottrina”. Si dice semplicemente “via”, derek - come ben attestano anche gli Atti (19,23) e soprattutto Gv 14,6, dove Gesù si autopresenta come la via.
Ovvero: il Testo interpella noi che lo investighiamo, ha una funzione soprattutto appellativa davanti alla quale conviene ascoltare e cercar di capire piuttosto che parlare, perché il tutto ci conduca alla giustizia e non renda vane le nostre parole, per quanto poche e misurate esse siano.
D’altra parte, Dio ne ha pronunciate dieci (Es 20,1ss: Dt 5,6ss) che il midraš riduce progressivamente a tre: «praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio» (Mi 6,8) - dieci parole decisive perché possiamo vivere.