Il silenzio del desiderio

Ogni discernimento vocazionale deve integrarsi col nostro corpo e i nostri sentimenti

di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

Borghi 01Qualcosa che urla dentro

Busso con titubanza alla porta. Dall’interno: «Avanti». Entro quasi senza calpestare il pavimento. Mi siedo.

Dall’altra parte del tavolo, il rettore non ha ancora sollevato lo sguardo dai fogli in cui sembra risucchiato. Attendo. Senza alzare gli occhi mi dice: «Mi sembra che tutti gli elementi siano positivi. (pausa) Sia i docenti che il padre spirituale parlano molto bene di te, anche il vicerettore». Poi, con uno sforzo evidente, alza gli occhi, mi guarda per un attimo, ricaccia gli occhi nei suoi fogli e dice: «Credo sarebbe ora tu ti decidessi per il diaconato».
Entrato in seminario cinque anni prima, con l’ipotesi di fare il prete, da due mesi avevo chiesto udienza al rettore, perché qualcosa dentro di me “urlava”, di fronte all’idea di fare il passo definitivo. Ma in realtà, appena sei mesi dopo il mio ingresso, avevo sentito che qualcosa non andava, ma a vent’anni, non avevo un briciolo di consapevolezza di me. E la mia testardaggine aveva vinto. Dico al rettore: «Guardi, non so cosa mi stia succedendo, ma è un po’ di tempo che sono nervoso, irascibile, non riesco a concentrarmi, dormo male». Appoggia la penna sul tavolo e con un sospiro di sopportazione alza gli occhi e mi dice: «Ma perché cerchi dei problemi dove non ci sono? Perché non ti fidi? Cosa temi? Credi che Dio ti prenda in giro?».
«Per nulla - rispondo -. Lei stesso, però, ha ripetuto spesso che una vocazione vera deve avere un cuore, deve muovere il desiderio. Io non riesco a sentirlo. Forse è normale sentirsi spaventati davanti ad una scelta così. Ma il mio malessere è di più. Se ci sentissi un cuore, oltre alla paura, sentirei anche desiderio. Ma non lo sento». «Ecco, proprio questo ti dice qual è la scelta giusta. Non è pensabile che tutti gli educatori si sbaglino. Quello che senti viene da chi non vuole che riusciamo ad amare Cristo totalmente. Stai tranquillo e fidati».
Oggi avrei ribattuto alzando il tono del mio dolore. Ma allora tacqui e decisi di fidarmi. Tre settimane dopo, un attacco di panico mi costrinse ad un precipitoso rientro a casa, quattro giorni a dormire per venti ore al giorno. Al quarto giorno, seduto sul letto di casa mia, mi dissi da solo: «Io in seminario non ci torno più. Il prete non fa per me». Poi nove mesi di pillole e due anni di terapia, per recuperarmi un po’. Avevo venticinque anni, una vocazione fallita alle spalle. La sensazione netta di non aver capito nulla di me stesso. E soprattutto una domanda molto chiara: ma possibile che chi doveva aiutarmi in questo non si sia reso conto di nulla prima?
Domanda che ha trovato risposta solo molti anni dopo. Cosa era successo? Che un ragazzo con parecchi problemi personali aveva scambiato un percorso vocazionale con una strategia per non affrontare se stesso. E ci aveva sbattuto il naso dolorosamente, perché gli “educatori” con cui aveva fatto i conti non avevano per nulla compreso la situazione in tempo, e avevano “letto” i segni positivi, non come un perfezionismo di copertura, ma come una reale predisposizione alla vocazione sacerdotale. Erano gli anni Ottanta.

Da dove viene e dove va lo Spirito

Da qualche anno mi capita di incontrare varie realtà ecclesiali, della regione e non. È pur vero che il mio sguardo è limitato agli incontri personali che faccio, magari anche segnato dalla mia esperienza passata, ma ho la netta impressione che quel mio problema di allora si aggiri ancora oggi, immutato e non affrontato, in molti percorsi vocazionali. Perché ancora oggi si dà per scontato spesso che la dimensione umana di una persona che entra in vocazione sia già in grado di sostenerne il percorso. Come se l’umano e il “religioso” fossero dimensioni autonome. O al limite opposto, che un percorso vocazionale religioso, di per sé, sia in grado di sostenere e far crescere anche una dimensione umana debole. Non che non sia mai possibile. Ma non è la regola.
Se fosse così, infatti, dovremmo avere molti, tra coloro che si consacrano, con una umanità fiorita, matura, aperta, solida. Che sarebbe visibile e molto attraente, perché in queste persone si vedrebbe una gioia e una felicità davvero “corpose”. Non mi sembra invece che questo risultato sia molto diffuso. Per lo più chi arriva ad una consacrazione, oggi, mostra segni di fatica abbondante appena il servizio pastorale si fa serio. E contemporaneamente i segni di compensazioni umane, necessarie per mantenere l’equilibrio. Dal cibo al sesso; dal perfezionismo spirituale alla mania tecnologica; dal denaro al possesso; dalla fama alla dipendenza relazionale; dallo studio al carrierismo.
Certo, è inevitabile che esistano compensazioni umane. Nessuno è perfetto. Ma un conto è esserne consapevoli e poter anche scegliere compensazioni meno “pesanti”, potendole gestire. E un conto è non riconoscerle e ammantarle di positività spirituale o pastorale, senza gestirle, producendo poi danni, a sé e agli altri, non indifferenti. E oggi, la “frantumazione interna” delle persone, dovuta al cambio epocale che attraversiamo, fa sì che, ancora più degli anni Ottanta, sia davvero difficile districare dentro alle dinamiche umane la presenza e la direzione dello Spirito Santo.

Borghi 02Edificare sentimenti solidi

Ecco perché oggi il discernimento è diventato da un lato più complesso e dall’altro ancora più necessario. Cosa si può fare? Provo qualche indicazione. Intanto guardiamo “cosa” si mette sotto “discernimento”. Se una volta lo sguardo era concentrato sulla dimensione etica e spirituale e sulle “pratiche” ad essa collegate, oggi più che mai lo sguardo va posto sulla persona intera, che trova nella dimensione corporea il luogo della propria sintesi, in cui Dio si rende presente: «I vostri corpi sono tempio dello spirito». Quindi oggi sono i desideri di bene a rivelare la volontà di Dio per noi, non i doveri, o i pensieri, o la parola di un altro, che spesso sono vissuti come copertura per bisogni non soddisfatti. Se i segni dell’attività dello spirito in noi sono «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé…» allora dovremo leggere lo spirito dentro ai sentimenti, e non tanto dentro ai ragionamenti, alle intenzioni o alle azioni, aiutando le giovani generazioni a trasformare le emozioni, di cui spesso solo si nutrono, in sentimenti, perché solo questi sono in grado di reggere scelte a lungo termine. Se il giogo di Cristo è “leggero”, un giogo vissuto in modo “pesante”, che comprime i desideri e non li considera, non può essere di Cristo. La possibilità di sfuggire all’emozionalismo, che si rinchiude su se stesso e si consuma nell’istante, oggi è data dalla riscoperta dei sentimenti, non dalla “compressione” delle emozioni sotto un sistema di idee o di doveri.
Secondo. Guardiamo a “chi” fa il discernimento. Credo che non sia più cosa buona tenere i percorsi vocazionali separati dalla vita reale della comunità in cui è nata quella chiamata. Se è lo stesso spirito che guida una vocazione e la comunità in cui essa nasce, non ha senso dividere un percorso dalla sua origine. Spesso ne secchiamo le radici senza rendercene conto. Chi meglio di quella comunità, che lo ha visto nascere e crescere può essere il luogo reale di un discernimento su come quella persona sta effettivamente maturando? Su come la sua vocazione sta impiantandosi nella dimensione umana e la sta facendo crescere o viceversa sfiorire. E chi meglio di quella comunità può avere nel cuore il desiderio di una preghiera seria e accorata a Dio padre che custodisca e faccia crescere quello che Lui stesso ha seminato? Perciò forse un discernimento corretto, oggi, è comunitario, cioè ha bisogno della comunità nativa di quella vocazione, e non già di una comunità artificiale creata ad hoc.
La conseguenza è che il discernimento, allora, non necessariamente è legato ad una persona consacrata. Ma a chi, in quella comunità, possiede due caratteri, ormai imprescindibili. Da un lato l’inclinazione naturale all’ascolto, all’empatia e alla comprensione di ciò che accade nell’altro. Rivelando in questo che il discernimento non è una scienza, né un puro istinto, ma un’arte, e che non tutti, per il semplice fatto di essere consacrati, ne hanno attitudine. Forse davvero dovremmo ritrovare l’idea di un carisma specifico, che regge questo servizio pastorale e che va individuato e coltivato. Dall’altro lato il discernimento è legato a chi accetta di fare percorsi di formazione specifica, non teorica, ma laboratoriale, che abbiano dentro dei reali eventi di maturazione spirituale, le acquisizioni della teologia attuale e l’apporto delle scienze umane. E al termine del quale la comunità possa riconoscere a quella persona un ministero specifico.
Lo spazio in cui la Chiesa potrebbe maggiormente investire nel discernimento è tanto. Il bisogno ancora di più.