Fioretti cappuccini

Come frate Gioacchino fu ferito nel cuore

Rubrica in Convento Gioacchino 01 (Disegno di Cesare Giorgi)L’inverno volgeva al termine lungo la linea gotica, che tagliava in due l’Italia. Il conflitto stava esaurendo le sue ultime fasi, ma non la violenza, che di giorno in giorno sembrava accanirsi sempre più. Da entrambe le parti, esercito tedesco e formazioni partigiane, si perpetravano saccheggi nelle povere case di campagna, alla ricerca di qualcosa per sopravvivere. Il gelo, la fame, i lutti erano ormai il pane quotidiano per la gente del territorio imolese. Anche i conventi non venivano risparmiati, soprattutto a opera di sporadici gruppi di tedeschi che vedevano ormai prossima la disfatta. Le mura conventuali non erano più un rifugio sicuro, e quella poca gente che vi aveva trovato asilo viveva nel terrore di quello che poteva accadere da un momento all’altro.


Il convento di Imola era anche sede del seminario dei frati cappuccini, con numerosi ragazzi che lì avevano trovato un pane sicuro, assistiti dai loro maestri, i frati che si occupavano di loro. Una sera irruppero nel convento quattro tedeschi, armati e intenzionati a far valere con le armi i loro diritti di occupanti. Un ufficiale, che masticava qualche parola di italiano, non tardò a far sapere subito il motivo di quella imprevista e non gradita visita: mangiare. Era la prova che le truppe tedesche avevano perso ormai la loro tanto decantata perfetta organizzazione, per cui ciascuno doveva arrangiarsi come meglio poteva. Tante case avevano già subito razzie da parte di partigiani, ma questi erano gente del posto, che conservavano ancora un po’ di timore di Dio, e non avevano asportato tutto, lasciando qualche briciola anche per i vecchi, le donne e i bambini. I tedeschi no, erano allo stremo delle forze. Prendevano tutto quello che trovavano, senza andare per il sottile e infischiandosi delle proteste della gente, che vedeva portarsi via quel poco che ancora aveva per sopravvivere.
Rubrica in Convento Gioacchino 02 (Archivio Provinciale)L’ufficiale che era entrato nel convento sembrava irremovibile di fronte alle suppliche dei frati, i quali gli facevano presente delle tante bocche da sfamare, soprattutto quelle dei ragazzi, della stessa età dei suoi figli. Niente da fare. Radunati i frati nel corridoio al pianterreno, guardati a vista sotto la minaccia delle armi da un militare, gli altri tre si diedero a rovistare metodicamente nelle varie stanze del convento. Qualcosa da mangiare doveva pur esserci se i frati erano ancora vivi. O no?
Intanto frate Gioacchino, che era deputato a provvedere il cibo del convento, pensava a quel poco di ben di Dio che aveva messo da parte. Sotto il coro della chiesa, era stato ricavato un piccolo spazio nel tufo, la cui entrata era nascosta da una botola di legno. Là aveva nascosto le sue provviste: il maiale macellato sotto sale, il formaggio trovato questuando, qualche sacco di farina e delle mele, che, si sa, sono facili sì da conservare, ma che hanno il difetto di emanare un forte profumo. Tutta provvidenza di Dio, per la quale egli aveva adottato misure prudenziali, ma che ora correva un grave pericolo, perché chi ha fame ha anche buon naso e non avrebbe tardato a trovare quella preziosa provvista. Inutile sarebbe stato anche il mucchio di fascine che nascondeva ogni cosa. Frate Gioacchino a questo pensava, mentre guardava la canna minacciosa del fucile del soldato di guardia. Esperto qual era degli umori della gente, dal posto in cui si trovava, teneva d’occhio la piccola porta della cantina, in cui, nel fresco della terra, custodiva il vino da messa e quello per le occasioni di festa. Era il suo piccolo tesoro, al quale teneva quasi come alla sua vita. Ma non poteva dimenticare il ben di Dio che si trovava sotto il coro, perché da quello dipendeva la vita dei ragazzi e dei frati. Scovata la cantina, i militari non avrebbero smesso di cercare qualcosa di solido, e avrebbero rovistato dentro ogni botola del pavimento del convento e della chiesa. Quando frate Gioacchino vide i soldati passare vicino alla porta della cantina, si fece avanti con lo strazio nel cuore e chiese: «Avete sete? Qui c’è la cantina e c’è del buon vino. Se volete assaggiarne un po’…». L’ufficiale aveva capito la domanda. Certamente il buon vino non gli dispiaceva e forse sentiva la gola un po’ secca, oltre a sapere che le cantine dei conventi qualche bottiglia buona ce l’hanno sempre. «Ja, Ja!». Frate Gioacchino, che sembrava avere il viso dipinto con il colore della morte, tirò fuori di tasca la grossa chiave della cantina, la infilò nella toppa e la girò. La porta fece qualche cigolìo, ma il cuore di frate Gioacchino fece ben altro. Tutti e tre i miliari, preceduti da frate Gioacchino, scesero la ripida scala in mattoni che portava nella cella seminterrata, e si trovarono di fronte a un cancelletto di ferro. Dietro vi erano, ben allineate, le bottiglie buone. Anche qui un’altra chiave e il cancello rivelò tutto quel nettare così caro al cuore e al palato di frate Gioacchino. Bicchieri non ve n’erano, ma solo ciotole sbeccate con piccoli manici, a mo’ di orecchi, da una parte e dall’altra, come era in uso tra i frati.
Frate Gioacchino prese in mano il “tirabussòn” (il cavatappi) e aprì la prima bottiglia, che non fu l’ultima. Il frate dentro la sua testa contava: «Ona, dù, trì, quater, tzèc bòci» («Una, due, tre, quattro, cinque bottiglie»). «Ja, Ja», ripetevano con soddisfazione i soldati, non sapendo dire altro, e asciugandosi la bocca con il rovescio della mano. E frate Gioacchino continuava a versare senza parsimonia, anche se quello era lo stesso suo «sangue» che versava. Non gli volle molto a comprendere che il vino, bevuto a stomaco vuoto, non aveva tardato a fare il suo effetto: «Quèt c’aiò capì che’in s’arcurdeva piò perché ch’i éra avgnù, aiò acumpagné fòra e i s’é avié in pèsa» («Quando che ho capito che non si ricordavano più perché erano venuti, li ho accompagnati fuori e se ne sono andati in pace»).
Così frate Gioacchino, con il sacrificio di cinque bottiglie di vino buono - un’angustia che si è portato dentro per tanto tempo -, aveva salvato maiale, formaggi, farina e mele. I ragazzi e i frati poterono tirare avanti pur nella ristrettezza di quei tempi duri, fin quando le ostilità ebbero termine e tornò la tranquillità, e con la tranquillità anche un po’ di abbondanza.
«Potenza del vino!», ripeteva frate Gioacchino. Ma da quel momento nessuno entrò più in cantina, tanto era “é dispiasèr” (il dispiacere) che quel luogo per lui così sacro fosse stato violato da estranei e che «frate vino» avesse deliziato palati diversi da quelli dei frati.