Ricordando frate Pierangelo Franchini
Riservato e apparentemente scostante, sapeva essere vicino e amico di tanta povera gente
Levizzano Rangone di Castelvetro (MO), 24 agosto 1923
† Reggio Emilia, 19 ottobre 2014
Di carattere tutt’altro che accomodante - caratteristica che si porterà dietro per quasi tutta la sua vita - fra Pierangelo visse fino ai venticinque anni lavorando come tanti suoi coetanei, prima nei campi e nei vigneti, e impegnandosi poi anche come manovale e muratore nel settore dell’edilizia. Ciò che venne a sconvolgere i suoi progetti di vita fu la decisione del fratello Vincenzo, più giovane di tre anni, di farsi frate cappuccino: era entrato in seminario, e stava percorrendo tutte le tappe che lo porteranno prima a essere semplice novizio, poi a essere ordinato sacerdote, e infine missionario nella lontana Australia.
Pierangelo, pur educato in una famiglia di fede cristiana cristallina, era rimasto molto scosso da quella scelta, che gli sembrava incomprensibile. Ma non sempre ciò che appare incomprensibile è anche irrealizzabile, pure per chi lo giudica tale. Un giorno giunse anche per lui il momento in cui quel misterioso personaggio che aveva imparato a conoscere con il latte materno, Gesù, venne a passare ai bordi del campo in cui lavorava e accanto ai muri che costruiva, chiamandolo a lavorare nella sua vigna e a costruire una chiesa fatta di pietre vive. Pur titubante nella decisione di lasciare il lavoro e la casa paterna, sembrava in realtà non aspettasse altro, e già il 9 maggio 1948 fece il suo ingresso nel noviziato dei cappuccini di Fidenza come semplice fratello laico.
Fra Pierangelo, tuttavia, avvertiva dentro di sé un malessere che neppure lui sapeva da dove provenisse, e che gli rendeva problematica l’esistenza. Abituato a un lavoro solitario come quello del contadino e del muratore, in cui bisogna parlare poco e lavorare molto, faticava ad accettare una vita che a lui pareva eccedere nei rapporti fraterni. Decise allora di tentare una nuova esperienza, più intimistica. Si allontanò dalla terra emiliana e si portò a Roma, presso l’abbazia dei Trappisti. Ma la vita monastica che vi si osservava, integralmente ordinata alla contemplazione all’interno della clausura del monastero, al culto divino, all’umile servizio di Dio nella solitudine e nel silenzio, in preghiera continua e in stretta penitenza, ben presto lo convinse che non era la strada che Dio aveva scelto per lui, più incline al lavoro manuale che alla contemplazione. Fece quindi ritorno nella Provincia cappuccina di Parma, e si mise a disposizione della volontà dei superiori per qualsiasi servizio fraterno a cui lo avessero voluto destinare.
Fu così destinato prima come frate cuciniere a Pontremoli, e poi come aiuto sacrista e questuante a Modena. Infine negli anni Cinquanta fu trasferito nel convento di Reggio Emilia come questuante a tempo pieno. Nelle pause del suo lavoro, come diversivo si distraeva con la coltivazione dell’orto e del giardino.
Fu l’attività della questua a Reggio Emilia e a Parma a caratterizzarlo per tutta la sua lunga vita e nella quale spenderà ogni sua forza. In questo lavoro venne a contatto con un numero crescente di famiglie della campagna reggiana e parmense, affinando, nei limiti consentiti dal suo temperamento, la capacità di dialogo e di ascolto. Nel passare di casa in casa ricordava, con gradita sorpresa degli abitanti, i problemi confidatigli l’anno precedente, tanto che, se un familiare gli aveva parlato dei problemi di salute del padre, la prima cosa che chiedeva al suo ritorno l’anno successivo era «Come sta suo padre?». Era sì un frate austero, poco incline a coinvolgere la gente con un sorriso più che accennato, ma anche incapace di rimanere insensibile alle problematiche quotidiane delle famiglie.
In convento non era affatto espansivo, quasi un uomo solitario, e difendeva con tenacia la sua indipendenza e la sua intraprendenza nel lavoro di cui era particolarmente geloso, non consentendo l’intromissione altrui. Il compito di questuante gli dava sollievo nella sua sete di dare testimonianza e di ricevere amicizia, tanto da trascorrere molta parte del suo tempo fuori convento, tra la genuinità della gente della campagna.
Quando l’età e problemi sanitari ne minarono i movimenti, si trovò costretto, tre anni prima della morte, a entrare a far parte della famiglia dell’Infermeria provinciale di Reggio Emilia, affrontando con serenità i limiti fisici imposti dallo stato di salute. In questo ultimo periodo il suo carattere, notoriamente tutt’altro che conciliante, si era alquanto addolcito, e accoglieva con atteggiamento finalmente sorridente, che esprimeva la sua riconoscenza, quanti lo visitavano o si occupavano di lui, ormai costretto a muoversi su una carrozzella.
Fra Pierangelo è stato un confratello riservato, ritenuto forse troppo frettolosamente piuttosto scostante e difficile. Le amicizie che egli aveva stretto con l’umile gente delle campagne reggiane e parmensi rivelavano invece in lui un temperamento aperto a chi sapeva accoglierlo nella sua originalità, che ne faceva un fratello unico e irrepetibile, come dovrebbe essere ogni frate. Riposa ora nel cimitero di Levizzano Rangone.