Anche se questa vita un senso non ce l’ha

Nelle canzoni di Vasco Rossi, la vacuità come domanda e maledizione 

di Walter Gatti
giornalista 

Gatti 01Avevano capito tutto

Le cose accadono. Le cose svaniscono. Le cose brillano e subito dopo inaridiscono.
Amori intensi che ammuffiscono. Fortune che passano. Passioni transitorie. Istinti che ci portano in mezzo al deserto senz’acqua di sentimenti ed esistenze.

Dove sta la certezza in mezzo a tanto svanire? In fin dei conti i padri biblici che dicevano che «tutto è vanità» raccontavano la vita già qualche migliaio di anni fa e non si può dire che Facebook o i canali televisivi satellitari abbiano cambiato di molto quello che quegli uomini avevano intuito quando vivevano in Palestina o in Mesopotamia. Vivevano senza acqua corrente, senza iPhone sempre in mano e luce sul comodino, eppure avevano già capito tanto, quasi tutto...
Insomma: più ti attacchi alle cose, più arriva il momento in cui queste ti tradiscono, piantandoti in asso. E l’inutilità delle cose che “sembrano” importanti risalta proprio nei momenti di ipotetico successo, quei momenti di vuoto cosmico così perfettamente descritti dalla famosa frase di Cesare Pavese, scritta dopo aver vinto il prestigioso premio Strega, «Successo e applausi: e allora?». E ai nostri giorni una bella canzone di Niccolò Fabi ne ricalca il senso: «Non è una sfida, / Non è una rivalsa, / Non è la finzione di essere meglio, / Non è la vittoria l’applauso del mondo, / di ciò che succede il senso profondo» (È, non è). La canzone (pop o rock che sia), che per sua natura è racconto di cose, fatti, speranze e delusioni, è uno dei mezzi comunicativi in cui più facilmente sono stati espressi i sentimenti che ruotano attorno alla scoperta delusa dell’inutilità vacua delle cose.
Ebbene: se le cose sono vane, cosa ci possiamo aspettare come uomini? Uno di quelli che hanno concentrato la propria attenzione su questo istante di disillusione della vita è Vasco Rossi. 

Ritrovarsi senza certezze

Gatti 02Ai tempi della sua ascesa - cioè negli anni Ottanta - gli osservatori e i critici del costume italico attaccavano Vasco perché dicevano che lui incarnava un’immagine deleteria, che offriva modelli negativi ai giovani. Magari è anche vero: forse uno non se la sentirebbe di proporre il Vasco ai figli come professore di vita quotidiana. Eppure… guai a sottovalutarlo, perché il rocker emiliano ha un senso unico e impressionante per esprimere le cose che sono sotto gli occhi di tutti.
Se in Siamo solo noi arrivava a disegnare il senso di una nuova antropologia, di una nuova comunità umana accomunata dal non avere riferimenti, bensì paure, divertimenti e istinti in comune («generazione di sconvolti senza più santi né eroi») e in Liberi liberi smascherava il finto protagonismo di un mondo che dice che ognuno è responsabile del proprio destino, senza poterlo essere però fino in fondo («Liberi liberi siamo noi / però liberi da che cosa, chissà cos’è? / Finché eravamo giovani / era tutta un’altra cosa / chissà perché? / Forse eravamo “stupidi” però adesso siamo “cosa”? / che cosa, che? / quella voglia, la voglia di vivere / quello che c’era allora / chissà dov’è!… chissà dov’è»), in altre canzoni proprio Vasco ha acceso impietosamente i riflettori sull’istante in cui le speranze, le illusioni, le certezze e le autarchie si rivelano “vanità”.
L’uomo che si crede forte, che si crede arrivato, che si crede imbattibile e sapiente, si ritrova senza certezze, e allora che fa? Eri un dio, e ti scopri un poveretto: e dunque?
Nelle canzoni di Vasco c’è spesso questa impotenza, che però si mescola in modo confuso con qualcosa d’altro: con la percezione che al proprio limite non ci si abitua. Oppure che il proprio limite è segno di qualcosa d’altro: di quel nostro essere fatti per qualcosa che “vano e futile” forse non è: «Quando cammino su queste / dannate nuvole / vedo le cose che sfuggono / dalla mia mente / niente dura, niente dura / e questo lo sai / però / non ti ci abitui mai / Quando cammino in questa / valle di lacrime / vedo che tutto si deve / abbandonare / niente dura, niente dura / e questo lo sai / però / non ti ci abitui mai / Chissà perché...? / Quando mi sento di dire la “verità” / sono confuso / non sono sicuro / quando mi viene in mente / che non esiste niente / solo del fumo / niente di vero / niente è vero, niente è vero /  E forse lo sai / però / tu continuerai / chissà perché...?» (Dannate nuvole) 

Domani arriverà lo stesso

In un’altra canzone, E adesso che tocca a me (2008), arriva all’arco est
La risposta per il cantautore emiliano è sempre una sola: vivere, vivere sremo della disillusione: «E adesso che sono arrivato / fin qui grazie ai miei sogni / che cosa me ne faccio / della realtà? / Ecco il punto: / adesso che non ho / più le mie illusioni / che cosa me ne frega / della verità».empre. Non possiamo fare altro. Di fronte allo specchio che si infrange, davanti alla caduta del velo che rivela le cose come stanno, l’uomo non riesce a fare altro che rivendicare la propria coraggiosa esistenza. Ma la vanità e la vacuità si possono prendere nella vita in vari modi. Nell’edonistico presente le si può considerare un pregio e un orgoglio e da ostentare. Oppure le si possono considerare una maledizione eterna. Oppure ancora le si può accogliere come una sfida: una porta aperta sull’immenso mistero della vita. Il Vasco Rossi mette insieme tutte le sfaccettature in una canzone come Un senso (2004): «Voglio trovare un senso / a questa sera / anche se questa sera / un senso non ce l’ha. / Voglio trovare un senso / a questa vita / anche se questa vita / un senso non ce l’ha. / Voglio trovare un senso / a questa storia / anche se questa storia / un senso non ce l’ha. / Voglio trovare un senso / a questa voglia / anche se questa voglia / un senso non ce l’ha. / Sai che cosa penso / che se non ha un senso / domani arriverà… / domani arriverà lo stesso / Senti che bel vento / non basta mai il tempo / domani un altro giorno arriverà…»
Istintivo come un animale, eppure capace di mettere su carta e su disco proprio quelle mancanze e quelle domande di cui molti farebbero volentieri a meno, il Vasco è il perfetto esempio di come le cose possono anche essere taciute, ma esplodono da sole. Non importa se l’esplosione avvenga nella testa, nel cuore oppure negli altoparlanti di uno stadio. Posso anche vivere superficialmente, per delusione oppure per incapacità di prendermi sul serio, ma di certo prima o poi quelle domande verranno a galla, perché siamo proprio fatti dell’impossibilità di accontentarci di quella vacua inutilità delle cose vane. Guai, quindi, a prendere le canzoni di Vasco solo come belle ballatone rock, condite da notevoli riff chitarristici sin dai tempi di Albachiara e C’è chi dice no. La sua voce sgraziata porta molto spesso qualcosa di autentico. Non fosse altro che per la sua incapacità di mentire sulle proprie debolezze. Che molto spesso è il primo passo per costruire o accogliere un’autentica speranza.