Chi muore giace

Una raccolta di disposizioni testamentarie racconta con chiarezza le nostre ansie

di Lucia Lafratta
della Redazione di MC

Lafratta 01Capaci di intendere e volere

Le mie zie erano molto pie e, nate un secolo fa, già avanti negli anni quando cominciò a spirare il vento del Concilio. Perciò la scarsa dimestichezza con la Bibbia non può stupire, così come quell’essere attaccate alla terra, alle cose concrete, misurabili, al tempo della raccolta delle castagne, alla macellazione dei maiali per farne salsicce e salami, che era l’attività di famiglia negli anni d’infanzia. Perciò Qoèlet sarà loro capitato tutt’al più d’ascoltarlo durante l’anno liturgico, mediato dall’omelia del sacerdote, nelle pause del rosario.


È così che siamo cresciuti, io e mio fratello, sentendoci ripetere che l’eredità, o quel che n’era rimasto dopo il nonno scialacquatore, la crisi del 1929 e i bombardamenti dell’ultima guerra, sarebbe andata “a chi ci chiude gli occhi”. Il concetto ci era abbastanza chiaro, ma incerto era il come: quando uno muore gli occhi restano aperti? hanno la molla le palpebre? come facciamo a essere proprio lì? Poiché non si sa né il giorno né l’ora, diciamo che non volevamo farci trovare impreparati tanto più che, vivendo parte dell’anno molto lontani, la questione si poteva complicare, e comunque il patto era che chi primo fosse arrivato avrebbe fraternamente diviso con l’altro.
Insomma, le sottigliezze lessicali alle quali ci introduce Giuseppe De Carlo in questo numero di MC, le sfumature delle varie traduzioni del termine ebraico hebel - vanità, fumo, nebbia, soffio, spreco - non entravano nel loro bagaglio. Così come, è lecito pensare, nel bagaglio dei cinquanta testatori che hanno lasciato le loro ultime volontà scritte di proprio pugno e che Salvatore De Matteis ha raccolto nel volumetto dal titolo immediatamente evocativo “Essendo capace d’intendere e di volere”, pubblicato per la prima volta nel 1992 da Sellerio e più volte ristampato, traendole dagli archivi notarili e dagli archivi di stato nei quali vengono conservati i testamenti trascorsi cent’anni.
La profondità dello sguardo che ci è concessa dal tempo trascorso, la lontananza dai luoghi, dalle persone, dalle vicende familiari ci consentono di prendere le distanze. E così facendo, lontani cent’anni, poco meno o poco più, ritrovare le nostre vicende familiari e personali, riconoscere noi stessi e chi ci circonda nei personaggi di quella che, nell’insieme, appare come una commedia ben congegnata, mai noiosa o scontata. Con colpi di scena al momento giusto, com’è nella vita quotidiana, se solo riuscissimo ad osservarla nella prospettiva di Qoèlet.
Per il quale tutto è vanità, soffio, nebbia che si dissolve: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?”.

Lafratta 02Ripicche del filo diretto

Vanità per la quale non vale - non varrebbe se ascoltassimo Qoèlet - la pena di prendersi troppo su serio. Visto che morire si deve, almeno togliamoci la soddisfazione di dire pane al pane e vino al vino, così sembrano dirsi i testatori, almeno una volta nella vita, anche se non potremo essere presenti per ridere o sorridere vedendo l’effetto che fa. O forse sì, pensa qualcuno, la cui fede gli dà la sicurezza che il mondo dell’aldilà sia sempre e comunque in contatto quasi diretto con l’aldiqua.
Vanità è accumulare denaro e beni, per poi scoprire che a poco servono se non accompagnati dal calore degli affetti. Restano, allora, l’ultimo baluardo a difesa di una vita infelice che nel testamento viene fotografata impietosamente: «Ho scritto questo mio testamento la notte del 23 aprile 1954 alle ore 01 cioè praticamente il giorno 24 aprile 1954 mentre ero in servizio in clinica. Credo che questa data sia significativa perché coincide col mio onomastico. Per la speciale ricorrenza di cui mai una volta vi siete ricordati, ho deciso di fare io a voi un regalo: vi comunico di avervi diseredato. Ho infatti alienato gradualmente il mio patrimonio immobiliare e donato il danaro che ne ho ricavato. Mi auguro di avere tempo e abilità sufficiente per sottrarvi ciò che resta. (…) Siete dunque sul lastrico e da qualche anno vivete al di sopra delle vostre possibilità. Quando ne sarete informati, sarà tardi per ogni rimedio e avrete finalmente un buon motivo per portarmi rancore per tutto il resto della vostra vita. Spiacente di avervi conosciuto. Mi auguro di non rivedervi mai più».
Vanità è aspirare all’immortalità, con la pretesa e l’illusione di non essere mai dimenticati, sia pure per onorare l’obbligo testamentario e non mandare in fumo l’eredità: «Obbligo fratelli e sorelle eredi a far celebrare una messa ogni mese nel giorno in cui ricorrerà la data della mia morte. Una messa cantata il giorno del mio onomastico e una il giorno del mio compleanno a imperitura memoria. Voglio infine una bella esequie con carro rococò e tiro a otto, una processione di venti orfanelli con ceri o fiori in mano, le prefiche e la banda musicale a diciotto ottoni. Nella chiesa addobbata desidero una bella messa cantata con accompagnamento di organo e violino. Non lesinate sul tenore. Fate una generosa offerta al parroco. Voglio mettermi a livello della buonanima di donna Filomena De Vito. Questo desiderio ve l’ho detto pure a voce. Se non lo eseguite perdete l’eredità».

Non fidarsi è meglio

Vanità è non fidarsi di nessuno, neppure di Dio, men che meno della scienza medica, per non dire dei parenti, che potrebbero seppellire incautamente un uomo non del tutto morto: «Voglio e pretendo solo che sia fatto quello che ho ben spiegato, e chiamo a testimone del mio desiderio la Misericordia, San Giuseppe e tutti i Santi oltre che la coscienza del mio erede e della mia beneficata famiglia. Dopo che la mia salma è stata esposta e prima di interrarla, nella bara speciale che mi sono fatto fare per l’occasione dovete metterci due litri d’acqua minerale non gasata, un pacco di freselle, la dentiera, la pila magnum con le pile cariche e il iochitochi per chiamare mio nipote nel caso che mi sveglio dalla morte apparente, come già mi è successo una volta mentre ero sul letto mortuario. (…) Faccio poi obbligo a mio nipote erede universale, col quale abbiamo già fatto tutte le prove, di rimanere sintonizzato con la mia salma interrata giorno e notte almeno per quarantotto ore».
Si sorride, a volte si ride, leggendo i testamenti olografi, scritti in linguaggio forbito o sgrammaticato, ma quelle storie, quelle vite raccontate in poche righe ci possono dare una mano a non prenderci troppo sul serio: «Ricordati del tuo creatore / nei giorni della tua giovinezza, / prima che vengano i giorni tristi (…) / e ritorni la polvere alla terra, com’era prima, / e il soffio vitale torni a Dio, che lo ha dato».