Allegri quanto conviene

Fiduciosi nella fedeltà di Dio, guardandosi dall’ipocrisia della finzione

di Brunetto Salvarani
docente di Teologia ecumenica alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

Salvarani 01Senso di spoliazione

Nella Regola non bollata VII, 16 (FF 27) si legge l’invito ai frati a guardarsi «dal mostrarsi esteriormente tristi e rannuvolati come gli ipocriti, ma si mostrino lieti nel Signore e allegri e gentili quanto conviene»: quasi in polemica con l’immagine tradizionale del monaco che, da Romualdo a Bernardo, è visto come colui che piange su se stesso e i propri fratelli, i propri peccati e la finitudine del mondo, per cui mandatum monachi flendi. Come a dire: il monaco piange, il frate ride.

Perché Francesco sente forte la fondamentale fedeltà di Dio alla terra. E sa che sin da principio, ripete il primo capitolo di Genesi, Dio vide che eratôv: un termine ebraico tradotto in genere con buono, però semanticamente ben più ricco, poiché non riguarda solo il versante etico ma anche quello estetico, e significa insieme bello e buono. Esempio classico al riguardo fra gli Scritti francescani, non certo unico, è, ovviamente, il Cantico di frate Sole.

Tuttavia non mancano, nella vita del Povero d’Assisi, soprattutto gli ultimi anni, passaggi qoheletici di oscurità, turbamento profondo, e acuta percezione dell’infinita distanza fra il Creatore e le creature. Se «c’è un tempo per ogni cosa» (Qo 3,1), non si può sfuggire al tempo della prova, della messa in discussione del cammino fatto: che gli appare talora insensato, e soprattutto frainteso. Pensiamo ai mesi tormentati della Verna (1224), quando - prostrato per il moltiplicarsi delle malattie e lacerato intimamente dalle gravi divisioni nella sua fraternità - si trova a sperimentare la crisi di fede più grave. È proprio allora, peraltro, che, stando alla tradizione, gli si presenta la visione del Serafino crocifisso: che lo porta a rivivere in prima persona il mistero di Cristo, ancor prima che nella stimmatizzazione, nella condivisione della solitudine, della spoliazione, del senso d’abbandono che Gesù sperimentò verso e sulla croce.

L’itinerario evangelico

Salvarani 02Ecco il contesto in cui si può inserire la stesura della Lettera ai fedeli (forse del 1225, anno prima del transito). Tra le lettere di Francesco si tratta della più diffusa, calda e personale, pur in un respiro universale, tanto che vi sarebbe racchiuso «tutto il Vangelo francescano» (Paul Sabatier); quella più vicina a un trattato organico di vita spirituale, presentando «un itinerario evangelico completo, con l’aspetto ecclesiale e quello sacramentale, l’esigenza dell’amore di Dio e quella dell’amore del prossimo» (Thaddée Matura). Con l’intestazione, comprendente tutti i cristiani, che rinvia all’inaudito coraggio della proposta francescana rivolta all’intero ecumene.<
L’autore giustifica il ricorso alla forma epistolare con una precisa condizione autobiografica: dichiarandosi impossibilitato a visitare personalmente i suoi interlocutori, per la malattia e sfinitezza del corpo (elementi che andranno tenuti presenti per quanto vedremo).
Il testo è divisibile in quattro parti: la prima a carattere teologico-trinitario, con l’incarnazione del Verbo nella fragilità della condizione umana e la scelta della povertà, la seconda morale-esortativa e la terza che descrive quanti hanno perseverato nella sequela Christi. L’ultima è connotata dai toni tipici della predica penitenziale, in cui l’alternativa fra benedetti e maledetti da Dio - assai presente nella Bibbia, specie nei libri sapienziali - risulta quanto mai sottolineata. È qui che compare una vivace narrazione a forma di exemplum, protagonista un uomo che sta per morire attorniato da parenti e amici che non vedono l’ora di spartirsi i suoi beni, forse un testo preesistente riutilizzato (il che conferma, al di là dei ripetuti proclami di chi si autodefinisce «simplex et idiota», una sua certa conoscenza del mondo letterario dell’epoca). È una scena drammatica, un piccolo mimo o una sacra rappresentazione in miniatura, di solito intitolata Il moribondo impenitente, che vale la pena di riportare per intero (la traduzione, dal latino, è mia). E che va letta non in chiave apocalittica - pressoché assente nel santo - al di là di alcuni particolari un po’ in stile danza macabra tipici della sensibilità medievale, bensì assunta come uno sforzo per coinvolgere direttamente e attingendo a tinte popolari l’ascoltatore (o il lettore, qui), come capita spesso nella predicazione francescana. Certo, nel quadro della dichiarazione di cecità e rovina dell’uomo carnale, che ignora la sapienza di Dio e predilige la follia mondana, fatta con più urgenza del solito per le condizioni di salute dello stesso Francesco. Una parola forte, dura, che sottende l’ammonimento di Mt 16,26: «Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?». 

La perdita dell’anima e del corpo

«Il corpo si ammala, la morte s’avvicina, accorrono i parenti e gli amici che dicono: “Disponi dei tuoi beni”. Ecco, sua moglie e i suoi figli e i parenti e gli amici fingono di piangere. Lui, sollevando lo sguardo, li scorge mentre piangono, e, commosso da un sentimento sbagliato, meditando fra sé dice: “Ecco, io metto nelle vostre mani la mia anima e il mio corpo e ogni mio avere”. In verità quest’uomo è maledetto, perché affida ed espone la sua anima, il suo corpo e ogni suo avere in mani del genere; perciò il Signore dice per bocca del profeta: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo”.
Subito fanno venire il prete, che gli domanda: “Vuoi ricevere l’assoluzione di tutti i tuoi peccati?”. Risponde: “Lo voglio”. “Vuoi tu dare soddisfazione, per quanto puoi, per mezzo delle tue sostanze, per tutto quello che hai commesso e per le frodi e per gli inganni nei confronti degli altri uomini?”. Risponde: “No!”. Al che il prete: “Perché no?”. “Perché ho consegnato ogni mio avere nelle mani dei parenti e amici”. E comincia a perdere la parola e così muore, quel miserabile!
Ma sappiano tutti che dovunque e in qualunque modo un uomo muoia in stato di peccato mortale senza dare soddisfazione, e potrebbe soddisfare ma non lo fa, il diavolo rapisce l’anima dal suo corpo con un’angoscia e una tribolazione tanto grandi quanto nessuno può conoscerle se non chi le prova. E ogni talento e ogni autorità e ogni conoscenza che egli riteneva di possedere, gli saranno tolti. Egli lascia a parenti e amici le sue sostanze, costoro le prendono e se le dividono e quindi dicono: “Sia maledetta la sua anima, perché poteva darci e procurarci di più di quanto non abbia procurato!”. Il corpo, lo mangiano i vermi, e così lui perde il corpo e l’anima in questa breve vita, e andrà all’inferno, dove sarà tormentato senza fine».

Curato dall’Autore segnaliamo:
Francesco d’Assisi. Guardate l’umiltà di Dio.
Garzanti, Milano 2014, pp. 316