L’altra metà di un tutto vanità

Una corretta traduzione del versetto del Qoèlet apre la porta alla speranza

di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

De Carlo 01La vanità della traduzione

Sconosciuto ma letterariamente bellissimo. Letterariamente bellissimo ma poco predicabile. Poco predicabile e quindi non predicato. Non predicato e quindi sconosciuto. Questo è il cerchio vizioso in cui è stato costretto il libro del Qoèlet, di colui cioè che - per ironia della sorte - si definisce “il predicatore”. Qoèlet infatti significa “colui che raduna in assemblea (qahal) il popolo e lo istruisce o lo arringa”.


A dire il vero, di quel libro tutti conosciamo un versetto che è assurto addirittura a proverbio. È il versetto iniziale (Qo 1,2), che viene dopo la presentazione dell’autore, e recita: «Vanità delle vanità (…) tutto è vanità». Per somma disgrazia però il solo versetto da noi conosciuto (o, meglio, la sua tradizionale traduzione) è fuorviante per la comprensione del pensiero e del messaggio di tutto il libro. Di fatto è fuorviante la traduzione del termine ebraico hebel che, in quel versetto di sole otto parole ebraiche, ricorre cinque volte. Il testo intero dice: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità (hebel)».
La resa di hebel con “vanità” è nelle autorevoli traduzioni della Conferenza Episcopale Italiana sia quella del 1975 che quella del 2008, ma poi in molte versioni della Bibbia in lingua moderna. E questo nonostante siano parecchi decenni che gli studiosi hanno corretto il tiro. Il motivo è che quella traduzione è talmente consacrata dall’uso proverbiale che si preferisce mantenerla, anche a costo di complicare la comprensione del testo biblico. Bisogna aggiungere che al riguardo ha pesato soprattutto la versione latina di san Girolamo, la famosa Vulgata, che suonava: «Vanitas vanitatum et omnia vanitas».
Venendo al dunque, il termine ebraico hebel significa essenzialmente «soffio - vento - vapore» e può essere utilizzato in senso proprio o simbolico, come deve essere inteso qui. Hebel è anche il nome di persona che nelle lingue moderne è stato reso con «Abele», perché, ucciso dal fratello Caino, Abele scomparve come un soffio. Il termine caratterizza il libro del nostro Predicatore tanto è vero che vi ricorre ben 38 volte sul totale di 73 di tutta la Bibbia ebraica: una presenza massiccia e di conseguenza un termine chiave, dalla cui retta comprensione dipende appunto la comprensione dell’intero libro.

De Carlo 02Tappe di una vita destinata a concludersi

Il libro si presenta da sé come opera di Salomone ed espone il ragionamento di un sapiente che, dopo aver sperimentato e conosciuto tutto nella sua vita, pare giunto ad una conclusione alquanto critica, disillusa, pessimistica. Proprio con il termine hebel egli giudica ogni cosa sperimentata e conosciuta. Egli ha saputo osservare la natura, i suoi cicli, le sue stagioni (…) ma di essa non sente più il fascino, perché tutto ritorna e si ripete con monotonia: perché «non c’è nulla di nuovo sotto il sole». Allo stesso modo il Qoèlet ha osservato l’agire dell’uomo senza riuscire a cogliere quale mai sia la differenza tra chi è saggio e chi è stolto, tra chi è virtuoso e chi non lo è, perché tanto gli uni che gli altri vengono ingoiati dalla morte: «Il saggio ha gli occhi in fronte, mentre lo stolto cammina nel buio. Eppure io so che un’unica sorte è riservata a tutti e due» (2,14). Personalmente poi il Qoèlet si è sforzato di vivere da saggio, eppure farà la stessa morte dello stolto. Peggio ancora: «La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli (…) L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità» (3,19).

Di per sé, dunque, hebel potrebbe anche essere anche reso con «vanità», ma l’autore non si colloca sul piano filosofico per dire che l’opera del Creatore è in se stessa vuota, cattiva e negativa, perché «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo» (3,11). Il “soffio”, l’inconsistenza del tutto, il vuoto non sono assoluti. Il Qoèlet intende hebel sul piano antropologico, quello della sua personale esperienza, della sua esplorazione del mondo e della storia. Tutto ciò gli fa concludere circa la evanescenza e la fragilità dell’uomo e del suo operare.
Essendo attribuiti a Salomone anche i Proverbi e il Cantico dei Cantici, un midrash giudaico spiega che: «Salomone ha scritto il Cantico quando era giovane, i Proverbi all’età matura e Qoèlet nella sua vecchiaia: perché quando l’uomo è giovane, canta; quando è adulto, enumera delle massime; quando diventa vecchio, parla della vanità delle cose».
Per capire adeguatamente il pensiero del Qoèlet, possono essere di aiuto le statistiche: nel libro ricorre sette volte il ritornello «Vanità delle vanità (habel habalim)», così come sette volte ricorre il tema della (inutile) fatica dell’uomo sotto il sole, nel suo arrabattarsi per trascorre i suoi giorni. Ma poi sette volte ricorre anche l’invito a godere serenamente le gioie che Dio non fa mancare.
Infatti qua e là, nella sua tristezza esistenziale, il Qoèlet sa intravedere come doni di Dio gli sprazzi di gioia. Dio, ad esempio, gradisce le opere dell’uomo: «Su, mangia con gioia il tuo pane e bevi il tuo vino con cuore lieto, perché Dio ha già gradito le tue opere» (9,7). E poi ci sono le gioie della famiglia: «Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole» (9,9). Per cui, nonostante le possibili constatazioni circa l’inutilità della fatica umana, vale la pena di fare quanto la nostra povera natura ci consente di fare: «Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza» (9,10), «In ogni tempo siano candide le tue vesti e il profumo non manchi sul tuo capo» (9,8).
Se l’esperienza porta a ritenere la “vanità” di ciò che fa e conosce l’uomo, la considerazione circa la “parte” che Dio assegna all’uomo nella sua vita fa scoprire le gioie che scandiscono le sue giornate sotto il sole.

Il vuoto che si riempie

La tradizione cristiana ha dato una sua lettura “ascetica” del Qoèlet: è emblematico quanto è scritto all’inizio dell’Imitazione di Cristo, che dal Medioevo in poi ha orientato tanta spiritualità cristiana: «“Vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qo 1,2), eccetto amare Dio e servire lui solo. Questa è la più grande sapienza: tendere alle cose del cielo piuttosto che a quelle della terra. È vanità, quindi, ricercare disordinatamente ciò che è destinato a finire, e riporre in esso tutte le speranze» (I,3).
Ma più cristiano ancora sarebbe completare il Qoèlet con la prospettiva neotestamentaria: se per il Qoèlet tutto è vuoto, Paolo («in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità»: Col 2,9) e Giovanni («pieno di grazia e di verità… Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto»: Gv 1,15.16) dicono che nel Cristo c’è invece la pienezza. La resurrezione di Gesù dice poi che tutto l’agire umano è da vivere non nella prospettiva della tomba che accomuna saggi e stolti, uomini e bestie, ma nella prospettiva della beata speranza.