L’abisso che separa il nostro mondo da quello ultramondano è una via, una strada da percorrere, un viaggio a cui bisogna prepararsi. E quello che a volte scopriamo è che i due mondi non sono così lontani e nemmeno così dissimili. Possiamo perciò fare, con Mark Twain, un “viaggio in paradiso” e trovare un aldilà con una forte presenza dell’al-di-qua. E contemporaneamente accorgerci, guardando Departures, che è importante che la nostra vita vada già quaggiù a braccetto con la sua fine.
Pietro Casadio
Viaggio in paradiso
un libro di Mark Twain
Passigli Editore, Bagno a Ripoli (FI) 2001, pp. 104
Sono quasi sicuro che si divertisse. Mark Twain, dico, mentre scriveva questo libro, Viaggio in paradiso. È il tipico autore (ce ne fossero) che vuole far sorridere il lettore, divertirlo avvolgendolo nei suoi giochi, nella sua ironia, nella sua libera fantasia, ma che vuole prima di tutto far sorridere se stesso. È il tipico autore che si può leggere due volte: la prima, spassionatamente, facendosi trascinare dal puro lirismo di parole che si leggono da sole, la seconda, con più oculatezza, soffermandosi su alcuni (delicati) particolari sfuggiti non a caso dalla penna dello scrittore, lasciati lì a indirizzare lo sguardo del lettore verso un pensiero, un concetto, un’idea.
Questo piccolo libro non vive forse della grandezza dei capolavori di Twain, che lo hanno reso padre della letteratura americana e democratica, ma un po’ di quella grandezza c’è ed è sempre prezioso nutrirsene. Lo spunto genetico, la scintilla, in effetti, è piuttosto semplice: ingrandire per ridurre, deformare per dare forma, allontanarsi per capire. C’è bisogno di un viaggio in paradiso, c’è bisogno di spaziare per l’intero universo, conoscere altri mondi, altre forme di vita, altre usanze, per poter svelare la nostra piccola piccola Terra per quel che è e per dare una misura e una giusta proporzione alle convenzioni sociali di cui viviamo che ci sembrano così assolute e imprescindibili. Da lassù, da quel centro dell’universo in cui è collocato il paradiso, il nostro pianeta non si vede, quasi non c’è, quasi non esiste. Forse, ci dice Twain, bisogna andare fin là, percorre anni luce di spazio, per renderci conto che il nostro mondo è un castello d’aria, comodo per chi vive ai piani di sopra, pieno di spifferi e infiltrazioni per chi sta alla base.
È l’essenza dell’ironia quella di allontanarsi da qualcosa per vederla dall’alto, con più distacco, e potere esprimere così un giudizio. Qui l’ironia si concretizza, si materializza in una storia che è un po’ sogno e un po’ visione, ma che mantiene intatte tutte le coordinate per ritornare al nostro mondo, alla nostra storia e poter ricordare com’era da lassù: piccola, un po’ gretta e un po’ meschina. È una sorta di zoomata all’indietro, insomma.