Fioretti cappuccini

Rubrica in Convento Come padre Francesco 01Quando padre Francesco Antonio scambiò il breviario con…

Frate Francesco Antonio, un frate piccolino con tanto di occhiali sul naso, e con barba poco significativa per quei tempi, coltivava gli interessi più vari: teologia, filosofia, lingue, storia, matematica, fisica. Vedendolo, anche per la prima volta, si notava qualcosa in lui fuori del comune: una volontà ferrea, un coraggio indomito, una voglia di conoscere, una fierezza che gli derivava dal fatto che tutto quello che faceva era frutto di forti convinzioni interiori. Non mancava tuttavia di debolezze, soprattutto quella a tutti nota, la distrazione, che per lui non era però tale, ma solo l’effetto - così sosteneva - della concentrazione su ciò che agitava il suo animo o impegnava i suoi pensieri. Questa sua tendenza lo portava inevitabilmente a cadere in piccole disavventure, a cui però si adattava di buon grado, perché quasi mai pericolose.


Rubrica in Convento Come padre Francesco 02Questa che qui viene raccontata non è che una della tante che si ricordano di lui. Era guardiano nel convento di Castel San Pietro Terme, città lungo la storica via Emilia, ai piedi dell’Appennino tosco-emiliano, da cui si ammirano a perdita d’occhio campi coltivati, e anche le vaste aree boschive, i calanchi e le valli delle prime colline dell’Appennino. Il convento è situato alla periferia estrema di quella cittadina lambita dal torrente Sillaro, che separa la pianura bolognese da quella romagnola, a quei tempi quasi in aperta campagna, con cui condivideva il sole, il silenzio, il canto oscuro delle tortore, e un cielo notturno pieno di stelle. La frugale vita dei frati non era diversa da quella della gente comune, e si adattava alle scarse esigenze della vita di allora, tanto che il convento, come per solidarietà, era considerato casa di tutti, affatto diversa dalle abitazioni delle famiglie contadine. Fuorché nel bagno, un lusso che, per preservare la modestia e la riservatezza, quasi solo i frati potevano permettersi di avere nel convento, mentre le case sparse nelle campagne, se ne possedevano uno, questo si trovava a una certa distanza dall’abitazione o ci si doveva adattare alla meglio come le circostanze lo consentivano, o usufruire della stalla, dove gli animali manco ti degnavano di uno sguardo. Era un bagno spartano quello conventuale, costituito da uno stanzino in cui troneggiava rialzata un’ampia lastra di freddo marmo a mo’ di sedile, con una largo foro al centro, che si affacciava direttamente sul pozzo nero. Per scongiurare che vapori maleolenti e, d’inverno, gelidi, salissero nell’ambiente e profanassero i sacri locali del convento, l’utente che aveva occupato quello stanzino, appena conclusa l’operazione di «dare a satana quello che era di satana», doveva chiudere accuratamente il foro del sedile di marmo con un grosso tampone di legno fasciato da una guarnizione di stoffa tratta da un saio dismesso, afferrandolo per il grosso chiodo ricurvo infilato nel mezzo come maniglia. Non era raro però che qualche frate sbadato - indolente sarebbe offensivo - si dimenticasse di posizionare il tampone sul foro, con tutte le conseguenze olfattive facilmente immaginabili e senza dubbio per nulla gradite anche a chi doveva pensare solo ai profumi celesti.
Un giorno, come tutti i comuni mortali, frate Francesco Antonio sentì la necessità di recarsi in quello stanzino riservato. Lasciò la sua cella dove stava studiando, mise il breviario sotto l’ascella, ed entrò nel bagno. Per occupare tutto il tempo morto che avrebbe richiesto quell’operazione liberatoria, non gli sembrava cosa migliore che approfittarne per recitare una parte dell’ufficio, che ai quei tempi era piuttosto lungo. Frugando con la memoria tra gli insegnamenti appresi al noviziato, ricordava la massima che una santa aveva lasciato scritto: «Quello che va giù è per il diavolo, e quello che va su è per Dio!». A frate Francesco Antonio non sembrava quindi cosa affatto sconveniente, per affermare la sua fedeltà a Dio e la sua ripulsa alle lusinghe del diavolo, seguire pure lui l’esempio di quella santa così schietta. La recita dell’Ufficio richiese alquanto tempo, più del necessario per l’altra operazione, ma alla fine, quando arrivò alla formula che concludeva la preghiera: «Fidelium animae per misericordiam Dei requiescant in pace. Amen» («Le anime dei fedeli per la misericordia di Dio riposino in pace. Amen»), frate Francesco Antonio chiuse il breviario. Lo depose sul marmo, si alzò, rimise a posto le vesti e il saio, strinse il cordone, e aprì la porta. Subito tornò indietro a riprendere il breviario, che mise prontamente sotto l’ascella, così come era entrato. Veramente gli sembrò che quel breviario fosse alquanto pesante e ingombrante più del solito, ma non vi fece caso più di tanto, perché la sua mente era occupata in pensieri più profondi. Richiuse accuratamente la porta e si avviò verso la scala che conduceva al pianterreno. Scese facendo ben attenzione ai gradini alquanto consumati dal calpestio dei ruvidi sandali di tanti frati, e si infilò nel corridoio che portava al refettorio, perché era ormai giunta l’ora di pranzo. Non mancò di affacciarsi per un istante alla porta laterale della chiesa, quella che dava all’altare, per fare una genuflessione rivolta al tabernacolo, sussurrando come era usanza tra i frati: «Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum» («Ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo perché con la tua santa croce hai redento il mondo»).
Quando i confratelli, più solleciti di lui nel portarsi in refettorio - la fame la sentono anche i frati, e come! -, se lo videro comparire davanti, fu accolto dapprima con meraviglia, poi con un sorriso malcelato e dandosi di gomito. Ma anche questa volta frate Francesco Antonio, che era il guardiano, non vi fece caso più di tanto, se non dicendosi che i frati non disdegnano di apparire dei buontemponi. Recitò la consueta preghiera sempre con il breviario sotto l’ascella e poi si accomodò a sedere. Afferrò il breviario per deporlo sul sedile a muro, ma con sua grande sorpresa si trovò in mano il grosso e lungo chiodo del tampone del bagno con tutto quello che vi era attaccato. Un attimo di smarrimento lo colse. Fece mentalmente una breve carrellata su tutto quello che poteva essere avvenuto e non tardò a intuire lo scambio avvenuto in quello stanzino riservato. Senza dire nulla e tenendo per il chiodo il tampone, uscì dal refettorio per riguadagnare il bagno ed effettuare lo scambio con il libro sacro. Questa volta collocò il tampone nel posto giusto, dicendosi fortunato di non aver chiuso il foro del marmo con il breviario. Così ridiscese con il breviario sotto l’ascella, questa volta più leggero, e si accomodò a sedere. «Buon appetito e scusate il ritardo! Capita di dimenticare l’orario!», si limitò a dire. Poi dispensò il silenzio, in modo tale che nessuno avesse il coraggio di commentare malignamente e subdolamente la sua distrazione. Perché la sua distrazione era solo concentrazione!
Passarono gli anni e anche nei conventi i bagni si modernizzarono, pur conservando la medesima funzione. La lastra di marmo scomparve assieme al grosso tampone di legno, ed episodi simili a quello accaduto a frate Francesco Antonio non si verificarono più, ma non mancò chi, invece del breviario, si ritrovasse sotto l’ascella il rotolo della carta igienica. Con buona pace di chi ha la puzza sotto il naso, scandalizzato per la disavventura di frate Francesco Antonio.