Tanta, benedetta e subito

La consolazione, concretandosi, ricuce lo strappo con la vita, generato dalla sofferenza 

di Alessandro Casadio
della Redazione di MC

Casadio 01Pochi, maledetti e subito

Molte delle cose belle che ci attendono e che la religione ci promette sono allocate in un futuro, forse non così lontano, ma che le rende non palpabili nel presente.

Per questo, noi commercianti dell’esistenza, bisognosi di quantificare, in dare e avere, tutte le cose che ci circondano, rimaniamo un po’ scettici e interdetti di fronte alla virtù della speranza che ci propone come obiettivo la felicità eterna, preferendo magari ad essa un immanente palliativo, uno straccio di soddisfazione edonistica, destinato a trasformarsi in vanità delle vanità, concretissimo nell’immediatezza quanto vacuo nel medio e lungo termine. Slogan efficace di questa concezione è quel “Pochi, maledetti e subito”, che naturalmente alludeva ai soldi, unico parametro di riferimento riconosciuto per la nostra mente monetarizzata.
Come cristiani abbiamo spesso enfatizzato questa visione sul futuro, bella coi suoi cieli e terra nuova che erediteranno coloro che si riconoscono figli di Dio, ma latitante in un mondo che rischia di perdere le sue radici spirituali. Tanto enfatizzata da trasformarla, per contrappasso dantesco, in una vita reale, autentica solo se densa di sofferenze e complicazioni. Al punto da far apparire il dolore per qualche guaio dell’esistenza come un’insperata opportunità salvifica. Naturalmente, quando formuliamo questo pensiero è alla sofferenza degli altri che ci riferiamo, abili come siamo a trovare rimedi e soluzioni ai problemi che non ci riguardano. Dietro alla retorica dell’accettazione c’è sì una responsabile consapevolezza della limitatezza dell’uomo e della realtà in cui vive, ma c’è anche l’inopinabile qualunquismo di chi si astrae da essa per evitare di dover cercare risposte scomode e non sempre facili da trovare.
Insomma, il dubbio che ci prende non così raramente, è se davvero questo aldilà, che è al di là di qualsiasi nostra comprensione, sia un qualcosa di così misterioso e astratto da risultare troppo facilmente manipolabile e, di conseguenza, poco credibile. Poco attraenti e accattivanti i trailer suggeritici dai pastori che, come brochure di agenzie turistiche, ci propongono un paradiso di infinite adorazioni contemplative. Manca un aggancio comprensibile, uno stuzzichino di eternità, che ci invogli a continuare il cammino quando questo è difficile, un lampo di faro nella navigazione incerta. Del resto lo stesso Gesù, temendo lo sconcerto dei suoi a causa del percorso che stava per intraprendere, si trasfigurò davanti a loro, concedendogli un assaggio di futuro. Siamo fragili e spesso smarriti: tutto qui.

Casadio 02Nemmeno il ragù della nonna

Per questo nel momento in cui la sofferenza, che genera solitudine, si invera nella vita delle persone, poco servono le auliche visioni paradisiache, che promettono ricompense generose per la fatica che si sta vivendo. Non è per nulla consolatorio, se sei stato vittima di un incidente stradale che ti ha paralizzato, apprendere che nell’aldilà si potrà guidare, anche contromano e a tutta velocità, irridendo qualsiasi pericolo. Non lenisce la tua sofferenza immaginare il figlio deceduto che canta per te, senza che tu possa sentirlo, tra una schiera di angeli, né che gli stessi angioletti si sbafino tutto il ragù buonissimo che tua nonna preparava prima di passare a miglior vita in cielo.
La banalizzazione della realtà trascendente genera ulteriore sconforto, rispondendo a categorie che conosciamo e che pertanto consideriamo limitate e inadeguate a fronteggiare l’universo misterico, che l’attuale sofferenza ci sta trascinando addosso. Il mistero della morte e della sofferenza devono conservare la propria natura, non riducibile a categorie razionali.

Consolatori degli afflitti

Ciò che, invece, si può fare per una persona che soffre è essergli accanto: fisicamente, senza moleste bugie pseudo-fideistiche. Essere presenti, senza voler spiegare, a tutti i costi, ciò che neanche noi sappiamo. Rigenerando il tessuto di relazione, che il dolore ha strappato. Entrando in empatia con chi pone pesanti interrogativi esistenziali su qualcosa che non può essere risolto, né giustificato. Senza pietismi stucchevoli, che non fanno che allontanare dalla consapevolezza matura della presenza di questi aspetti indesiderati, ma fondamentali, della vita. Sottolineando, con la presenza del corpo, l’aspetto concreto del gesto di consolare, che getta un ponte, magari sconnesso e fragile, nell’universo del mistero.
È inevitabile che, in questa azione di ricucitura, possano capitare incomprensioni o situazioni inopportune, così come accadono in tutte le dinamiche tra persone. Anche questo aspetto tangibile dei nostri limiti aiuterà a recuperare la dimensione reale dell’esperienza che si sta vivendo, del nostro bisogno degli altri. Ciò che invece è indispensabile è l’immediatezza di assumere questo atteggiamento sensibile. Senza rimandarla alle calende greche o a un domani indeterminato, perché il toccare con mano la vicinanza degli altri è il primo pilone del ponte, che ci collega e ci fa andare oltre i nostri limiti. Non c’è bisogno, per fare questo, di ricorrere a miriadi di sciagurate parole, sempre impacciate per la delicatezza del momento; non sta a noi risolvere il problema, illudendoci di sostituirci alla misericordia di Dio. Un silenzio presente può acquisire un valore inestimabile e non invasivo. Possiamo anche solo camminare a fianco di chi soffre, testimoniare con la presenza vera e attenta che il cammino, un po’ più impervio, prosegue nella sua naturale consequenzialità.
La consolazione non è l’opposto della sofferenza, non la annulla, né ne risolve i problemi che essa apre, né ne attenua le difficoltà. È la certezza reale della compagnia in cui stiamo vivendo; misera quanto noi, fragile e limitata quanto noi. Ma capace di creare comunione e di rendere autentica, nell’umiltà, la presenza di Dio. Capace di irridere, contemplandola, la sofferenza.