Procedendo al buio, con fiducia

L’immagine sospesa del dolore ritrova la sua consolazione nella presenza nascosta

di Luigi Verdi
sacerdote, responsabile della Fraternità di Romena

Pensa, la relazione di ora
questa nuova faccia
dell’amore,
la chiamano lutto.

Livia Candiani

Verdi 01Amore e dolore ci proiettano nell’infinito

Viviamo in un contesto culturale in cui il dolore viene molto spesso reso spettacolo nella vuota ripetizione di immagini e parole che rimbombano sui nostri teleschermi; oppure il dolore viene evitato, come si trattasse di qualcosa di cui vergognarsi. In una società in cui vige l’obbligo del mostrarsi sempre belli, giovani ed efficienti, non trova infatti posto l’esternazione e l’espressione del dolore e di quel suo lungo processo chiamato lutto: spaventa o, meglio, riporta alla fragilità intrinseca dell’essere umano, accostarsi alla creatura che soffre, guardare le sue lacrime, raccogliere i suoi singhiozzi.

Troppo stona tutto questo con l’immagine dell’uomo e della donna di oggi, ai quali tutt’al più viene consentito di soffrire per una ricostruzione di chirurgia estetica o per un tatuaggio.
Spaventa il dolore, spaventa chi soffre, e si chiudono gli occhi per non vedere ciò che tanta paura incute; si allontana con una operazione di negazione ciò che invece rappresenta il comune denominatore dell’umanità: il confronto con la morte di una persona amata.
Ma il dolore, come l’amore, possiede una strana capacità di accostarci al mistero, di avvicinarci ad una dimensione che, se non guidati da uno di questi due sentimenti, non avvertiamo: una dimensione che affina lo sguardo e che, pur nello strazio, scava portando alla luce tesori nascosti. Come nell’amore così nel dolore è difficile trovare parole che possano esprimerlo, che possano davvero “dirlo tutto”; come nell’amore così nel dolore ci perdiamo in quel che stiamo provando e lo sentiamo straripare, invaderci nella nostra interezza, intessere le fibre più nascoste del nostro animo e del nostro corpo. Si appartengono, amore e dolore, appartengono entrambi all’indicibile, all’imperscrutabile, alla dimensione più sottile ed essenziale dell’uomo. Entrambi ci proiettano nell’infinito e nell’eterno.
Nella nostra Fraternità di Romena abbiamo cercato uno spazio e un tempo per stare vicini a chi soffre del dolore più lacerante che un essere umano possa provare: la morte di un figlio. Lì dove le parole si strozzano in gola e nient’altro può consolare se non il piangere, il ricordare, il gridare tutta la rabbia che gonfia il cuore, sperimentiamo e quasi tocchiamo con mano la vastità e l’asprezza di una ferita insensata. Eppure accogliere e accompagnare questi genitori devastati dalla perdita subìta è ormai diventato qualcosa di prezioso e sacro. Prezioso come l’oro, sacro come la vita. Perché di vita si tratta: vita non solo spezzata, ma vita da continuare, da ricominciare, da scoprire ancora una volta vibrante di amore. Vita ferita certo, che grida le domande più grandi: Dio dov’eri? Perché? E ora? Le domande di Giobbe e, in fondo, di ogni uomo che soffre.

Verdi 02 (Saverio Orselli)Il dolore non ha risposte

Nei nostri incontri non proviamo a dare risposte a queste domande, semplicemente perché non ce ne sono. Il dolore non ha un senso, o forse il senso lo si scoprirà solo molto dopo, a posteriori, quando, come dopo un naufragio e l’essersi sentiti preda delle tempeste e delle onde e aver lottato e tremato, si approda ad una riva. Ma questo avverrà solo dopo, molto dopo.
Come meravigliosamente esprime una mamma del gruppo: «Alle domande sono poi seguite altre domande e come sassolini in bocca le abbiamo masticate a vicenda, azzardando risposte personali, imparando tanto su di noi, sulle nostre reazioni, riponendo nella luce più giusta quello che ci era accaduto. Il nostro stare insieme ci è servito a ripensare il tempo, a riuscire a mettere in prospettiva il passato e il futuro e vivere invece appieno il presente, l’unico tempo sul quale possiamo agire. Insieme siamo riusciti a sollevare il mantello del lutto, per ricominciare ad aprire gli occhi alla bellezza, per abitare la vita sapendo, credendo, sperando di ritrovare i nostri figli alla fine del nostro viaggio».
Nain si chiama il nostro gruppo, Nain come il luogo in cui Gesù resuscitò l’unico figlio di una madre vedova. Luogo in cui Gesù si trovava a passare, che non viene mai più citato nei vangeli, luogo di miracolo, di lacrime e di gioia, luogo di dignità e coraggio. Luogo in cui soprattutto Dio parla e soffre, piange e consola, non nelle vuote e inutili parole che si cercano davanti al dolore, ma nel silenzio e nella presenza nascosta.
Dalle tenebre più fitte e impenetrabili di un cuore che soffre abbiamo imparato che la fede è procedere al buio: senza capire, senza voler a tutti i costi dare un senso e interpretare, ma semplicemente continuando a camminare. Accettando umilmente che le risposte a quelle crude domande ci verranno consegnate solo un domani.

Dio ci è al fianco, impotente e debole

Come scrive in cella Dietrich Bonhoeffer: «Il nostro diventare adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci fa conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona. […] Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta a fianco e ci aiuta».
Procedere al buio significa accettare in fondo che l’unico dolore che ha un senso è quello del parto, e che forse tutti i dolori intendono farci partorire qualcosa: forse una parte nascosta di noi più vera, più pulita, più adulta, direbbe Bonhoeffer. E questo, come nel parto, non può avvenire se non con sforzo, nella tensione dolorosa di ogni muscolo, nelle lacrime che scendono senza accorgertene. Nel gemito che tutto passi presto.
Camminare insieme, questo è il gruppo Nain, procedere in un buio che vorremmo presto dissolvere, ma che a volte si infittisce invece ancora di più e altre volte si dirada leggermente. Come un’onda del mare che si ritrae, il dolore lascia spazio al sorriso, alla tenerezza, al ricordo delicato di quel figlio partito troppo presto. Non scompare il dolore in quei momenti, ma diventa più dolce, e quindi più sopportabile: diventa solo amore e quindi vita. Perché la vita, lo sappiamo bene, nasce sempre dall’amore: lo sperimentiamo ogni giorno, quando ci sentiamo davvero vivi solo se avvertiamo un brivido d’amore. E solo nell’amore, che non muore e che non è stato sepolto assieme a quel figlio, possiamo ritrovare la forza e il coraggio di continuare a procedere nel fitto buio. Con il cuore sospeso, certo, tremante ed esitante, ma in cui avvertiamo tutta la potenza straordinaria dell’amore. Come un aratro il dolore ha scavato dentro il nostro cuore, lasciando una ferita nella quale poco a poco l’amore versa gocce di oro.
Scopriamo così che la vita di chi se n’è andato continua a fecondare la vita di chi resta, nella incomprensibile logica dell’amore.