Sarò con voi, sempre

Intervista alla Piccola Famiglia dell’Assunta di Monte Tauro

a cura di Barbara Bonfiglioli e Gilberto Borghi 

Bonfiglioli-Borghi 01 (Piccola Famiglia dell'Assunta)A Monte Tauro nel comune di Coriano, poco sopra Rimini, vive una comunità che si chiama Piccola Famiglia dell’Assunta ed è composta da semplici cristiani, fratelli e sorelle, consacrati e coniugi. Seguono la Piccola Regola scritta da don Giuseppe Dossetti. Lo specifico della loro vita è il servizio ai piccoli e agli ammalati, nel contesto di una comunità parrocchiale. Siamo andati a trovarli.

Chi sono i vostri piccoli e come nasce la vostra scelta di stare con loro?
I nostri piccoli sono persone con disabilità più o meno gravi, la maggioranza non autosufficienti o che hanno in comune l’abbandono. Dopo un breve periodo di tempo necessario all’inserimento, essi diventano membri permanenti della comunità e vengono affidati a un fratello o a una sorella e ai rispettivi nuclei in modo stabile. Tale affidamento è per tutta la vita: si sta sempre insieme notte e giorno. La condivisione riguarda ogni momento della giornata regolare, anche durante la preghiera comunitaria, se le condizioni del piccolo lo consentono.
Abbiamo maturato la scelta di vivere con questi piccoli nel 1972 all’interno di un gruppo di giovani che decisero di condividere il loro tempo libero con un gruppo di ragazzi handicappati, portandoli con loro al mare, in piscina e al bar. In realtà niente di eccezionale, ma nel 1972 tutto ciò era rivoluzionario.
Questo gruppo di giovani decise poi che voleva andare a vivere insieme. La prima casa fu a Montilgallo (Longiano FC), dove fin da subito fu chiesto a questi giovani di ospitare, prima solo per l’estate, poi per tutto l’anno alcuni piccoli a cui le loro famiglie non erano in grado di prestare cura ed attenzione. Nacque così la prima accoglienza di portatori di handicap, nella convinzione che il portatore d’handicap non è da commiserare, ma ha delle risorse proprie e specifiche e quindi deve essere incoraggiato a divenire risorsa per la comunità in cui è inserito.

Colpisce questo rapporto uno a uno tra voi e gli ammalati. Che fondamento ha questo rapporto?
§Il lavoro fa parte della vita della nostra comunità e la nostra convivenza coi piccoli vuol essere assunzione totale di una sorte. Il perché e il modo è definito dal fatto che noi vogliamo onorare il Signore nei piccoli. La maggior parte di loro richiede un impegno di dedizione e di assistenza a tempo pieno, per cui il rapporto uno a uno è talvolta una necessità imprescindibile.
Inoltre un tale rapporto favorisce la relazione d’affetto tra le persone, che, a nostro avviso, è perno fondamentale della vita di ogni essere umano: ogni uomo ha bisogno di essere amato e, se si sente amato, avverte la bellezza della vita e, quindi, sceglie la vita, anche in condizioni che apparentemente non porterebbero a pensare di voler vivere. Inoltre, il rapporto uno a uno permette di investire tutto per quella persona arrivando anche a individuare soluzioni “terapeutiche” innovative adatte proprio per lui.

Bonfiglioli-Borghi 02 (Piccola Famiglia dell'Assunta)In una società dove il dolore si nasconde, voi affidate a un fratello o sorella un “figlio” per tutta la vita. Si può pensare che questa vicinanza-condivisione possa dare consolazione al dolore?
Rispondo con un esempio concreto: Davide - dice sorella Agnese, che lo ha in affido - è uno degli ospiti campioni della nostra comunità: nasce con una malformazione cerebrale aggravata da altre problematiche che hanno contribuito a rendergli la vita veramente difficile e dolorosa, tanto che i medici nei primi mesi di vita avevano deciso che era meglio “lasciarlo andare”.Ma a un anno Davide reagisce. I medici non riescono a dare spiegazioni. Di fatto, Davide ha oggi 30 anni, vive e lotta per continuare a vivere. E i medici si stupiscono che sia ancora vivo.
Sorella Agnese ricorda che Davide ha avuto momenti molto difficili, ma - lei ne è convinta - lui ha scelto sempre la vita. E per scegliere di vivere così tenacemente, vuol dire che ha trovato qualcosa di bello per vivere.
Sorella Agnese si è chiesta se ha senso questa storia e si è data una risposta che non si può misurare, una risposta di fede, che parte dall’evidenza concreta che Davide è vivo.
A volte è stata accusata di fargli del male aiutandolo a vivere così: 30 anni di vita così - lei stessa ammette - possono mandare in crisi. Però chi vede Davide anche una volta sola non si pone più una domanda del genere, tanto è evidente la sua voglia di vivere. Nella sua esperienza di mamma-sorella ha avuto in affido anche bambini sani nel corpo, ma talmente feriti dentro di loro che erano molto meno amanti della vita del suo Davide. Ci confida che all’interno della comunità si cerca di creare le condizioni per cui la vita sia qualitativamente bella per tutti. Nella sua esperienza ogni persona ha necessità del contatto umano e dell’amore. Soprattutto chi ha vissuto l’abbandono, quando trova il contatto umano e l’amore, coglie la vita molto bella e trova consolazione al proprio dolore.

In un vostro documento del 1972, osservate che il diversamente abile non è oggetto di compassione, che non lo si può nascondere per paura di danneggiare il turismo o per un certo pudore della società. Fare le cose normali con chi è diversamente normale è diventato un po’ il vostro stile: in cosa questo vostro “stile” può aiutare le persone oggi a relazionarsi bene con l’handicap?
Tutto il nostro lavoro è orientato in modo che i disabili non vivano in un rapporto di completa dipendenza da chi svolge per loro un servizio, ma esprimano tutte le loro potenzialità residue. Essere occhio di chi non vede e gambe di chi non cammina non significa sostituirsi in tutto a chi porta una disabilità, ma aiutare ogni persona a raggiungere una propria maggiore autonomia, a non rinunciare a nessuna delle mete possibili, tendendo sempre più ad una vita “normale”.
Occorre superare l’idea che il malato o il portatore d’handicap debba essere solo “oggetto della pastorale”, occorre pensarlo come soggetto che può dare un suo contributo e darlo al meglio. In tale senso si esce dall’idea della vergogna o del pietismo che per troppi decenni hanno accompagnato le famiglie con portatori di handicap o malati gravi.
Bonfiglioli-Borghi 03 (Piccola Famiglia dell'Assunta)Nel concreto del quotidiano è importante evitare la solitudine: l’inserimento in una rete di affetti familiari che si respira nella comunità aiuta nei momenti di crisi, perché ci si confronta, ci si consola e si cammina insieme.
E poi si ha un altro effetto positivo: le persone con handicap si trovano ad avere l’occasione di svolgere loro un servizio, fin dove possono, verso chi sta peggio. Vivere la dimensione familiare, voler bene agli altri, aiutare chi sta peggio è contagioso e li fa crescere come persone.

Il dolore, la malattia prolungata nel tempo fanno paura: quale è il vostro “segreto” per riuscire a vivere con un piccolo per tutta la vita?
Quando a un fratello o sorella viene affidato un piccolo, l’impegno talvolta copre ogni minuto della sua giornata. Hai il piccolo a cui pensare. Questo vuol dire tutto il tempo e amore con lui o lei. È sicuramente un impegno importante - ci confida sorella Lucia che si occupa della più piccola della comunità - ma è gustosissimo. In fondo - spiega - non siamo mai da sole: abbiamo le altre sorelle e fratelli. È stancante, ma alterniamo il servizio con la preghiera e il silenzio. Il senso della preghiera e il senso di famiglia sono i nostri due “segreti”, a cui ci appoggiamo soprattutto nei momenti più pesanti.
Talvolta - continua - puoi solo accompagnare il tuo piccolo verso la fine e il frutto di tanto impegno sembra sparire nel vuoto. E in questi casi il supporto della fede nella resurrezione e della famiglia allontana ogni paura o dubbio sul senso del tuo impegno. E poi facciamo una vita molto normale fatta di incontri, viaggi, frequentazioni a tutti i livelli e a Montetauro passano più di duemila ospiti all’anno.