La catena indistruttibile del Consolatore

Francesco, anello solido della catena che riconduceva Chiara a Dio

di Maria Giovanna Cereti
clarissa nel Monastero di Forlì

Cereti 01Per tornare ad amare la vita

Ci sono modi di dire, dal sapore vagamente arcaico, che non ci capita di udire quasi più. Eccone uno: «Questo figliolo è proprio la mia consolazione!». C’è da augurarsi che non sia sparita la realtà corrispondente, ma soltanto sia mutato il modo di esprimerla. Ecco allora che, da parte di una mamma o di un papà, parlare di un figlio come “consolazione” allude al fatto che la sua buona riuscita (non solo negli studi o nel lavoro, ma nell’avventura della vita) fa sperimentare al genitore una pienezza di senso; gli dice che “valeva la pena” sacrificarsi, fare fatica, anche rinunciare a qualcosa perché il figlio potesse fiorire. Valeva la pena dare la vita perché da quel dono scaturisse un centuplo.


La parola consolazione, con una etimologia forse un po’ elaborata, può essere letta come l’atto di chi si accompagna a chi è solo con il suo dolore e gli fa amare di nuovo la vita. Di fatto ormai non ci è facile usare questo termine. Può darsi che a questo imbarazzo contribuiscano diversi motivi: in un mondo di processi che vogliamo sempre più rapidi, consolare e soprattutto “essere consolazione” è faccenda che si sottrae alla logica del tutto-subito. Chiede tempo, rinuncia alla fretta, pazienza. Soprattutto chiede presenza, sempre più rara in quest’epoca di connessioni e contatti prevalentemente virtuali.
Inoltre: siamo davvero consapevoli di quanto il nostro cuore abbia bisogno di essere consolato?
Forse lo sappiamo nei momenti di sconforto, di solitudine, di tristezza, quando percepiamo più acutamente il bisogno di un volto amico, di un sorriso, di un abbraccio, di una parola di incoraggiamento; ma nello scorrere normale dei giorni ci preoccupiamo più del nostro benessere…
Chiara d’Assisi invece lo sapeva bene. Tra le tante espressioni con cui descrive il rapporto speciale che l’ha legata a Francesco, ne troviamo nel Testamento una particolarmente significativa: Chiara afferma che Francesco è stato per lei e per le sorelle «colonna e unica consolazione dopo Dio e sostegno» (TestsC 38: FF 2838). Impossibile leggere questa frase come l’espressione di un momento, di qualcosa che è stato sperimentato solo in una determinata circostanza, magari di crisi o di difficoltà interiore. Il Testamento costituisce un estremo tentativo di Chiara di dire alle sorelle cosa era più prezioso e le stava più a cuore di quella Regola di cui forse non sperava ormai più l’approvazione (giunta solo alla vigilia della sua morte). Per fare questo Chiara fa ripetutamente memoria, per le sorelle presenti e future, di ciò che ha dato consistenza alla sua vita: il rapporto con Francesco.

Cereti 02Il sogno di diventare fratello

Nell’incontro con lui ella aveva intuito il suo sogno evangelico: il sogno di diventare fratello, uscendo dalle logiche di potere, di competizione, di autoaffermazione, per vivere un’altra logica, quella della misericordia e del dono gratuito di sé. La scelta di vita che Chiara aveva poi concretizzato, con il coraggio di rinunciare alla sua condizione di donna nobile e ricca, era nata dall’incontro con il volto di Francesco attraverso il quale aveva abbracciato quel sogno.
Chiara ribadisce continuamente di aver trovato la sua identità attraverso Francesco, e lo fa con termini differenti: «fondatore», «piantatore», «cooperatore nel servizio di Cristo». Altre parole le prende dalla Scrittura, come «colonna e sostegno» (cf. 1Tim 3,15). Ed è proprio in mezzo ad esse che colloca, in modo inatteso, quest’espressione così densa di risonanze: «unica consolazione dopo Dio».
Di quale consolazione aveva avuto bisogno Chiara, riconoscendo poi di averla ricevuta da Francesco?
Credo che la prima esperienza di consolazione sia proprio consistita nella testimonianza che la vita ha un senso buono se viene restituita nella gratuità. È la stessa esperienza che Francesco, raccontando i suoi inizi nel Testamento, condensa nelle parole «ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo» (2Test 3: FF 110).
Mi sembra poi che l’attenta cura e la sollecitudine speciale, promessa e attuata da Francesco verso Chiara e le sorelle, sia stata una sorgente costante di concreta consolazione, che ha permesso di attraversare l’incomprensione del contesto sociale e religioso, le privazioni anche materiali, le tante incertezze sulla via da seguire. Anzi, alcune allusioni delle biografie autorizzano a pensare che anche la presenza di Chiara abbia avuto questa funzione di consolazione nei confronti di Francesco: penso per esempio al suo rifugiarsi a San Damiano durante l’aggravarsi della malattia (cf. CompAss 83).
Non dimentichiamo poi che, quando Chiara scrive il suo Testamento, Francesco è morto ormai da circa 25 anni: lunghi anni senza la sua guida e la sua presenza, in cui è proseguito il faticoso cammino di ricerca della forma anche giuridica da dare all’esperienza fraterna di San Damiano, con momenti di tensione anche con il papa e la curia romana. Forse è proprio questo il tempo in cui Chiara ha vissuto più dolorosamente il bisogno di consolazione. Credo che in tutto questo percorso la memoria viva di Francesco, gelosamente custodita nel cuore e nella relazione con le sorelle, l’abbia accompagnata come memoria di una umanità luminosa, plasmata dall’incontro con il Signore Gesù Cristo.

Purché radicati nel Signore

Eccoci al punto chiave: Francesco ha potuto essere per Chiara consolazione non in forza della sua disponibilità o del suo temperamento, per quanto affascinante possa essere stata la sua personalità, ma perché solidamente radicato nella relazione con il suo Signore. È la stessa Chiara ad affermarlo, quando accenna al fatto che egli era «totalmente visitato dalla consolazione divina» (TestsC 10: FF 2826), totalmente coinvolto nel rapporto appassionato con il Signore: e per questo in grado a propria volta di diventare consolazione.
Né per Francesco né per Chiara la consolazione ricevuta dal Signore costituisce un’esperienza mistica da tenere rinchiusa nel proprio cuore: essa invece rende possibile una circolarità fraterna, diventa esperienza da condividere. Entrambi infatti usano il termine consolare per indicare il rapporto materno che il guardiano o l’abbadessa devono intrattenere con i fratelli e le sorelle quando sono nella tribolazione (cf. RegsC IV,12: FF 2778).
Riascoltiamo l’eco delle parole dell’apostolo Paolo: «Sia benedetto Dio … il quale ci consola perché possiamo anche noi consolare» (2Cor 1,3-4): entreremo in questa esperienza per diventare noi stessi consolazione, e perché ad ogni uomo possa giungere la consolazione dell’amore salvifico di Dio? (cf. papa Francesco in Evangelii gaudium 44).