“La gioia dell’annuncio”, questo il tema di Festassieme, che si è tenuta nel convento di Imola il 15 giugno scorso: un’occasione che i gruppi, missionari e non, hanno ogni anno per ritrovarsi e incontrare i missionari. Riportiamo una sintesi dell’intervento sulla esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium tenuto da Guido Mocellin, giornalista caporedattore del quindicinale Il Regno-Attualità e direttore del mensile I Martedì.

Lucia Lafratta 

5 cose da ricordare

Sintesi delle modalità di Chiesa missionaria

di Guido Mocellin
giornalista

Rubrica Via Emilia e Vangelo 01 (Ivano Puccetti)Proverò a raccontarvi “la gioia dell’annuncio” secondo le regole classiche del giornalismo anglosassone, almeno di quello di una volta: quelle del chi, che cosa, quando, dove, perché. Adattandole un po’: vi dirò perciò prima il che cosa, poi il chi, poi il dove, poi il quando e infine, non il perché (dovremmo saperlo da soli…) ma il come.

 Che cosa

Nessun dubbio sul che cosa: il tema del documento è la Chiesain uscita, o meglio «in uscita missionaria» (EG 17), condizione per una nuova tappa evangelizzatrice marcata da una gioia (EG 1) dolce e confortante (EG 9ss) e piena di fervore e dinamismo (EG 17). Gioia e missione stanno, dice il Papa, in un nesso fortissimo (EG 21).
Il termine “uscita”, “uscire” ricorre 25 volte. Ne parla diffusamente il c. I, «La trasformazione missionaria della Chiesa», ma si può ben dire che questa di una Chiesa «in uscita» sia l’impresa di Francesco, l’idea che guida la sua pastorale. Così, sono innumerevoli, nella Evangelii gaudium e altrove, le volte in cui Francesco ha raccomandato l’uscita e messo in guardia dal suo opposto, lo stare chiusi dentro: dentro le nostre strutture, autoreferenziali, ecclesiocentrici (e quindi tendenzialmente clericali), autoritari anziché a servizio (EG 93-95).
Le porte della Chiesa devono stare aperte in modo da permettere sia ai suoi figli di entrare, sia di uscire a incontrare tutti gli altri (EG 46), anche a costo di rischiare: con una felicissima metafora sanitaria, Francesco ci dice che è preferibile per essa un’infermità da infortunio occorso uscendo (lui parla di Chiesa incidentata), che da malattia contratta nel chiuso delle proprie asfittiche mura (EG 49). Se è la missione, l’uscita, a dettare l’agenda della comunione, e non viceversa, si evita poi il rischio di identificare la comunità con la cerchia dei praticanti, o peggio, degli impegnati in qualche specifico compito.

Chi

Passiamo al chi: il soggetto dell’uscita missionaria, dell’annuncio e della eventuale catechesi è senza dubbio il popolo di Dio (EG 11-18). Per Francesco “popolo” è parola “esistenziale”: egli vi vede una realtà concreta e viva, che corrisponde alla totalità dei battezzati, compresi i lontani (EG 113, 114, 118). Nessuno rinunci a evangelizzare, raccomanda (EG 120): lo Spirito ci abilita tutti all’annuncio, e dunque non è opportuna né utile la distinzione tra specialisti e destinatari della missione (EG 120).
Se il popolo di Dio è il soggetto, anche la riflessione sui contenuti dell’annuncio dovrà partire dalla vita vissuta del popolo di Dio. Lo si capisce quando Francesco, uscendo dagli schemi ideologico-ecclesiali a cui siamo abituati, pone in valore la pietà popolare esaltandone - specie nei poveri - la forza evangelizzatrice (EG 125), e più in generale quando raccomanda di contemplare il popolo.
Perché nel popolo di Dio il papa vede “la santità quotidiana”, quella “classe media della santità” raccontata dallo scrittore francese Malègue che si incontra, spiega, in «una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per portare a casa il pane, gli ammalati, i preti anziani che hanno tante ferite ma che hanno il sorriso perché hanno servito il Signore, le suore che lavorano tanto e che vivono una santità nascosta». Ecco tanti esempi di cristiani “in uscita”, senza nemmeno saperlo.
In sintesi: una volta che accettiamo l’idea dell’uscita, è la vita (la Provvidenza? Dio stesso) che ci mette sulla strada qualcuno da amare e al quale, amandolo innanzitutto, testimoniare il nostro incontro col vangelo. Prima e a prescindere dal (o persino malgrado il) fatto che tutto ciò sia incanalato in strutture.

Rubrica Via Emilia e Vangelo 02Dove

Quanto al dove, è facile: il luogo verso cui uscire in missione sono le periferie, geografiche ed esistenziali, bisognose della luce del vangelo. Lo aveva detto anche durante il viaggio a Rio de Janeiro: il discepolo è inviato alle periferie esistenziali, ai margini. C’è chi pensa che, per noi europei, questa sia la questione più difficile da digerire. Francesco infatti parla di «uscire dalle proprie comodità» (EG 20), abbandonare il quieto vivere per concentrarsi sullo zelo apostolico: altro che l’idea che lisci il pelo alla cultura contemporanea, relativista e liquida.
Il suo mandato è esigentissimo, e non a caso le sue parole più dure e ferme sono state rivolte, sinora, anche all’interno della Chiesa, a coloro che hanno più autorità (potere). A loro e a noi ha ribadito di non pensare in termini di crociata, o proselitismo, o marketing (EG 24): tre parole che, riferite a diverse epoche storiche, dicono ugualmente l’idea di conquista, di appropriazione di un territorio.
Nelle periferie ci si avvicina agli altri per cercare il loro bene, (EG 87), e si possono vedere i germogli della resurrezione, anche quando ci sembra di avere davanti un campo spianato, e che tutto sia morto (EG 276). Si va verso le periferie perché si deve primerear, prendere l’iniziativa, come ha già fatto il Signore con noi, e cercare i lontani, arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi, prendere su di sé l’odore delle pecore (EG 24).
Andare alle periferie vale anche per il modo di fare le cose nella Chiesa. «Si è fatto sempre così» è secondo Francesco un criterio pastorale comodo, ma lui ci vuole piuttosto audaci e creativi (EG 33), sperimentatori di risposte nuove, di frontiera.
Infine, nelle periferie non conviene apparire ossessionati da una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere, perché i nostri interlocutori probabilmente non conoscono il nucleo del vangelo. Occorre allora che l’annuncio si concentri sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa (EG 34-35).

Quando

Siamo arrivati al quando, che secondo Francesco è evidentemente adesso. Traspare infatti da tutto il documento l’urgenza di non lasciare trascorrere troppo tempo tra la formulazione di un progetto di «Chiesa in uscita» e il suo avvio.
Ma non significa dover avere fretta di «concludere», tutt’altro: nella gioia del vangelo Francesco ci dice con chiarezza che il tempo è superiore allo spazio, e in particolare che ciò che importa è iniziare dei processi per poi lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati, ma piuttosto assumendo la tensione tra pienezza e limite, perché «il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce» (EG 222-223). Lo dice in riferimento alla vita sociale, ma si capisce che lo pensa anche per la vita ecclesiale, e segnatamente per il discepolo missionario.

Come

Infine, il come, che credo si possa ben riassumere in una parola: misericordiando. Che è anche la parola che figura, in latino, sul motto episcopale e ora pontificio di Francesco, «miserando atque eligendo», e che fa riferimento alla vocazione di Matteo nella lettura di Beda il Venerabile, il quale dice che il Signore «lo guardò con sentimento di amore (miserando) e lo scelse (eligendo)».
Misericordiando: l’atteggiamento di chi ha misericordia. La comunità evangelizzatrice vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva, e si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo (ancora EG 24).
La misericordia, insieme alla pazienza, è anche la misura con cui rapportare all’ideale evangelico le possibili tappe di crescita delle persone che si vanno costruendo giorno per giorno, cosicché il confessionale, ad esempio, non diventi «una sala di tortura bensì il luogo della misericordia del Signore che ci stimola a fare il bene possibile» (EG 44), e la Chiesa sia dunque «il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del vangelo» (EG 114).
Ma è soprattutto in riferimento «all’imperativo di ascoltare il grido dei poveri» che la gioia del vangelo spende le parole più intense sulla misericordia, e sono tutte parole bibliche: le Beatitudini, Giacomo, il Deuteronomio, Tobia, la Prima lettera di Pietro… e conclude: «È un messaggio così chiaro, così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha il diritto di relativizzarlo» (EG 193-194).
La misericordia è così l’atteggiamento che Francesco chiede a tutta la sua Chiesa. Perché anch’egli convinto, come Paolo VI, che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». È dunque mediante la sua condotta, la sua vita, chela Chiesaevangelizzerà innanzitutto il mondo, vale a dire mediante la sua testimonianza vissuta di fedeltà al Signore Gesù, di povertà e di distacco, di libertà di fronte ai poteri di questo mondo, in una parola, di santità».