Frate Gottardo nei conventi in cui era vissuto aveva sempre svolto il lavoro di frate questuante di città. Soprattutto la ridente cittadina di Faenza lo aveva visto ogni giorno camminare a piedi con la sua “sporta” cappuccinesca e bussare di porta in porta a chiedere qualche spicciolo per la tavola dei frati. Più che il centro cittadino, dove c’erano abitanti troppo evoluti per lui, uomo venuto dalla Jugoslavia, preferiva la periferia, più accogliente.
Nazzareno Zanni
Fioretti cappuccini
Come Frate Gottardo imparò a non fidarsi di nessuno
Era universalmente noto che la gente di Romagna non fosse seconda a nessuno in generosità, ma con un difetto. E non da poco per un frate “cercone”. Non era raro imbattersi in vecchi anticlericali, che vedevano le tonache di preti, frati e suore come fumo negli occhi. Era come se dessero fuoco a tutto lo spirito represso di acrimonia che avevano dentro, sentendosi in diritto di lanciare lazzi non proprio gentili verso quei “vagabondi”.
Più accomodanti erano gli abitanti delle nuove periferie delle città, dove si erano installate famiglie di recente urbanizzazione. Provenienti dalle campagne, erano abituate da secoli a vedere i frati passare di casa in casa, tanto da considerarli quasi come componenti della famiglia. Nessuna meraviglia quindi, anzi!, manifestava quella popolazione quando vedeva comparire sulla strada la tonaca consunta di un cappuccino con la sua sporta al braccio. Lo accoglieva sempre con cortesia, che si esprimeva nell’offrirgli un bicchiere di vino sincero, che egli si affrettava ad accettare senza superflui complimenti. Perché il vino era una di quelle cose con cui non si doveva scherzare.
Frate Gottardo aveva un particolare debole per il succo della vite, e nessuno, né in convento né fuori, si meravigliava se a un bicchiere di insipida acqua preferisse un “goto de vin”, anche il meno pregiato. Lui era di bocca buona e non faceva differenza tra un vino e l’altro, purché fosse d’uva. Provenendo dall’Istria si accontentava sempre, perché là, dove il vino era condimento di ogni cibo, si beveva quello che la natura, con le sue capricciose stagioni più o meno favorevoli, produceva. Questa sua “debolezza” non suscitava scandalo in nessuno, anche quando la lingua gli si impastava un po’. L’unico timore della gente consisteva nel fatto che, nel vederlo rientrare in convento con passo alquanto incerto, incappasse nel pericolo di cadere nel largo canale che costeggiava la via del ritorno. Ma frate Gottardo, benché seguisse il ciglio della strada proprio da quella parte, non aveva mai lo sguardo tanto offuscato da non saper distinguere la strada dal flusso dell’acqua che vi correva accanto. Fosse stato vino… Che possedesse l’istinto dell’asino nel camminare sul ciglio del burrone senza mai precipitarvi? Nessuno ha potuto dare una risposta sicura in proposito; fatto sta che mai lo si dovette andare a ripescare, come se fosse divenuto un pesce.
Un giorno venne anche per frate Gottardo il momento di lasciare Faenza con le sue vie percorse e ripercorse per tanti anni, e con gli infiniti bicchierotti di vino che vi aveva bevuto, molto più numerosi di quelli che aveva vuotato in convento. Per la pesantezza degli anni che aveva contato dalla nascita - ed erano più di un rosario e mezzo -, fu convinto a trasferirsi nell’infermeria del convento di Bologna. Qui egli avrebbe trovato, sì, fraterna assistenza, ma non l’abbondanza di vino che la gente faentina gli offriva con generosità nei suoi giri di questua. Perché in convento il vino era misurato: una ciotola sola, non di più, al pasto, mentre la sua bocca si ribellava al sapore insipido dell’acqua. Anche se un detto popolare asserisce che il vino è il latte dei vecchi, lui di quel latte ne vedeva sempre troppo poco. Ma che volete farci? Rassegnarsi era l’ultima cosa a cui frate Gottardo pensava, perché la sete, come tutti sanno, è cattiva, e chi ha sete deve per forza cercare di spegnerla. Non con qualunque liquido, però. Per questo frate Gottardo, avendo a disposizione tutta la giornata, si aggirava per il convento, specialmente dove il frate canavettaio conservava il vino per la tavola dei frati, alla ricerca di un fiaschetto di vino bianco o rosso che fosse. Quando gli riusciva di scovarlo, un sorso, ingollato dal collo del fiasco, non se lo faceva mai mancare.
Un giorno, nessuno ha mai saputo come abbia fatto a scovarlo, frate Gottardo venne in possesso di un bel fiasco di vino rosso, più grande del solito, da due litri. Come fare? Portarlo nella sua cella dell’infermeria manco pensarlo, perché il frate infermiere non avrebbe tardato più di tanto a scoprirlo, con la conseguenza che tutta quella delizia sarebbe finita in bocca altrui. Dopo averci pensato e ripensato, trovò la soluzione. Lo avrebbe nascosto in un cespuglio dell’orto, proprio vicino alla colonna dove era collocata una statua della Madonna. Lì vi era anche un bel sedile e avrebbe potuto dare, tra una decina e l’altra del rosario che immancabilmente accompagnava le ore della giornata, un fortuito abbondante assaggio. Nessuno avrebbe avuto alcun sospetto, anche perché l’impagliatura del fiasco ormai color terra si mimetizzava bene nel cespuglio, senza attirare sguardi inopportuni. E infatti nel suo passeggio mattutino e pomeridiano, si fermava con devozione in preghiera vicino alla statua della Madonna come per riprendere fiato. Dopo essersi guardato attorno con circospezione, e assicuratosi che nei paraggi non si aggirasse anima viva, si alzava dal sedile, scostava i rami del prezioso cespuglio, con tutto quello che seguiva. La cosa andò avanti alcuni giorni senza che nessuno se ne accorgesse, se non il fiasco, che aveva visto il suo contenuto calare a vista d’occhio, senza il contributo di altri. Era stata davvero una trovata indovinata quella del cespuglio.
Un pomeriggio, quando la sete si fa maggiormente sentire, frate Gottardo, come al solito, si avviò per il viale dell’orto, ben sapendo che cosa avrebbe dovuto fare. Come al solito teneva la corona in mano e le sue labbra si muovevano frettolosamente nel recitare le avemarie. Per misura prudenziale fece tutto il percorso del viale per sincerarsi che non vi fosse anima viva in giro; infine, con passo guardingo, ma senza darlo a intendere, si diresse lentamente verso il cespuglio accanto alla statua della Madonna. Aveva già recitato le prime due decine del rosario, quando finalmente giunse in prossimità del cespuglio sospirato e già sentiva in bocca il sapore profumato di quel liquido scuro nascosto tra i rami. Si sedette, diede ancora uno sguardo attorno, e quando fu certo di essere solo, si alzò e si accinse alla consueta operazione. Ma guarda di qua, guarda da là, del fiasco neppure l’ombra. Controllò attorno sorpreso, ma niente da fare: il fiasco era scomparso. Alla fine si diede per vinto, non prima di aver rivolto uno sguardo, come un implicito rimprovero, alla statua della Madonna: «Non ci si può fidare di nessuno!». La Madonna non fece una piega e mantenne il suo segreto. A frate Gottardo, deluso come non mai, non rimase che riprendere il suo lento passo, più strascicato del solito, continuando a recitare di malavoglia le restanti avemarie del rosario. E così rientrò in convento, aspettando l’ora di cena, nella quale il vino, almeno per i suoi gusti, non abbondava di certo e non aveva il sapore del vino di un fiasco nascosto in un cespuglio.
Gli sarebbe capitata ancora la fortuna di trovare un secondo fiasco di vino? Questo nessuno lo poteva né avrebbe potuto saperlo. Però frate Gottardo da quell’esperienza aveva imparato la lezione: occhi indiscreti ci sono dappertutto e di nessuno ci si deve fidare. Neppure della Madonna.