E fermamente voglio obbedire

La scelta di Francesco subordinata nelle relazioni

di Grado Giovanni Merlo
docente di Storia del Cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano

Merlo 01Sudditi di tutti

Il Duecento è il secolo in cui in modo più evidente e clamoroso si espresse la plenitudo potestatis, la «pienezza di potere» del papa della cristianità latina. Essa significò ierocrazia, vale a dire la volontà di “dominio del mondo” da parte del “sacerdozio”. Di ciò frate Francesco non si interessa. La sua scelta religiosa comporta la rinuncia a qualsiasi posizione ed esercizio di potere nella società e nella Chiesa.

Il suo francescanesimo è subordinativo e ciò incide pure nella definizione e nella realizzazione delle relazioni con e tra i suoi fratelli/frati. Le attestazioni sono numerose. È sufficiente scorrere i vari capitoli della Regola non bollata del 1221 per averne una prima chiara visione.
Nel capitolo V, per esempio, si legge: «Tutti i fratelli non abbiano potere o signoria (potestas vel dominatio), soprattutto tra di loro. Come infatti dice il Signore nel vangelo: I principi delle nazioni dominano su di esse e i più grandi esercitano su di esse il potere. Non così tra i fratelli. Ma chiunque vorrà farsi grande tra di essi, sia loro ministro e servo. E chi è il maggiore tra di loro diventi come il minore». Ancora, nel capitolo VII si trovano espressioni oramai famose: «Tutti i fratelli, in qualunque luogo si trovino a servire o a lavorare presso altri, non siano tesorieri né cancellieri, né siano a capo nelle case in cui servono, né accettino alcun ufficio che crei scandalo o arrechi danno alla loro anima, ma siano minori e sudditi di tutti quelli che sono in quella stessa casa».
Nel capitolo precedente della stessa Regola non bollata si rinvengono parole altrettanto importanti: «E nessuno sia chiamato priore, ma generalmente tutti si chiamino fratelli minori; e l’uno lavi i piedi all’altro». All’interno o all’esterno della fraternità per il fratello/frate è inaccettabile una posizione di dominio. Su ciò non esiste alcun dubbio, né necessita qui moltiplicare le citazioni dagli Scritti francescani. Il potere, espresso dai termini latini potestas e dominatio, è del tutto estraneo all’ispirazione di fondo di frate Francesco, alla sua volontà di «vivere secondo il modello del santo vangelo». La “sequela del Cristo” significa adeguarsi al principio contenuto nel Vangelo di Matteo (20,28) che recita: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire». Questo versetto, con ogni probabilità, doveva ritornare non raramente sulla bocca di frate Francesco, se qualcuno ne sintetizzò il dire in una delle cosiddette Ammonizioni, nella quale il versetto stesso viene così commentato: «Coloro che sono costituiti sopra gli altri, si glorino tanto di quella prelatura quanto se fossero destinati all’ufficio di lavare i piedi dei fratelli. E quanto più si turbano se viene loro tolta la prelatura che se fosse loro tolto il compito di lavare i piedi, tanto più mettono insieme per sé un tesoro fraudolento a pericolo della propria anima» (Am IV: FF 152).

Merlo 02 (Ivano Puccetti)La rinuncia alla guida

Non occorre insistere ulteriormente sul “servizio” come alternativa totale al “potere”, anche religioso ed “ecclesiastico”. Tuttavia, non è difficile immaginare che nella fraternità, prima, e nell’Ordine, dopo, problemi di guida e di convivenza potessero porre concrete esigenze di assumere atteggiamenti e di compiere azioni forzatamente non subordinativi, cioè, in altri termini, dominativi. Come si sarebbe comportato frate Francesco in circostanze del genere? Sappiamo che, quando fu costretto a tornare in Italia dall’Oltremare per l’emergere tra i fratelli/frati di scelte e comportamenti non conformi alle sue convinzioni, nel 1220 egli si rivolge a papa Onorio III per ottenere un cardinale che provvedesse a garantire la “disciplina” tra i frati minori: lo ottiene, scegliendo il potentissimo cardinale Ugolino d’Ostia (futuro papa Gregorio IX). Segue la decisione di frate Francesco di rinunciare alla guida “istituzionale” della fraternità, pur mantenendo la sua presenza esemplare in mezzo ai fratelli/frati.
La Chiesa romana è individuata come potere garante della “disciplina” dei fratelli/frati. La stessa Regola bollata del 1223 si conclude con l’espresso invito di frate Francesco ai fratelli/frati «di chiedere al signor papa uno dei cardinali della santa romana Chiesa, che sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità»: il potere, dunque, in mano a chi istituzionalmente lo ha e lo deve gestire. Non è per caso che quelle parole precedano la precisazione della finalità attribuita alla presenza del cardinale («governatore, protettore e correttore»), così espressa: «affinché sempre sudditi e sottomessi alla stessa santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo vangelo del Signor nostro Gesù Cristo che abbiamo fermamente promesso». 

Secondo il santo vangelo

Il potere degli uomini di Chiesa diventa qui una sorta di protezione che renda possibile la fedeltà al «vivere secondo il modello del santo vangelo». La cosa è senza dubbio sorprendente per una mentalità “moderna”, oggi assai diffusa, che giudica i prelati della Chiesa medievale in modo pregiudizialmente negativo, arrivando sino al punto di affermare, in maniera del tutto arbitraria e sbagliata, che Francesco d’Assisi avrebbe rischiato, in quanto vicino agli eretici, di essere messo al rogo! Egli è invece obbediente e sottomesso agli uomini di Chiesa, persino ai sacerdoti «più poverelli di questo secolo», che considera addirittura suoi «signori». Ma nei confronti dei suoi fratelli/frati?
Il discorso qui si fa complesso e articolato, poiché è sufficiente leggere i testi della Regola non bollata, della Regola bollata e del Testamento per scoprire una serie di espressioni che sembrerebbero esprimere una volontà di “dominio”, una intenzione di “potere” da parte di frate Francesco, per esempio, là dove nei suoi Scritti utilizza verbi alla prima persona: voglio, non voglio, dobbiamo, fermamente voglio, comando fermamente per obbedienza. Come conciliare questa affermazione di sé, con le parole del Testamento che così dicono: «E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e ad altro guardiano che gli sarà piaciuto di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l’obbedienza e la volontà sua, perché egli è mio signore» (Test 27-28: FF 124)? Le possibili risposte sono assai complesse e non formulabili in rapida sintesi. Per ora, rimanga alla riflessione personale quanto abbiamo scritto. Non mancheranno occasioni per ritornare sul tema “san Francesco e il potere”.

Dell’Autore segnaliamo:

Frate Francesco
Il Mulino, Bologna 2013, pp. 160