Il potere di uccidere il drago

Riconoscere il potere fondante per allontanare la tentazione di asservirsi ad altri

di Giancarlo Biguzzi
docente di Nuovo Testamento al Pontificio Istituto Biblico

Biguzzi 01La degenerazione possibile

Neppure l’anarchico può vivere se non c’è esercizio di potere: del potere egli riconosce l’inevitabilità proprio mentre ne chiede il decentramento più ampio possibile. Per la sua battaglia l’anarchico va in cerca delle indicazioni che vengono dalle leggi della natura. E come non dargli ragione? Nella natura infatti tutto è gerarchizzato: ci sono genitori e figli, docenti e alunni, maestri e apprendisti, e giudici tra contendenti. Insomma, nella vita sociale ci vogliono la genitorialità, l’esperienza, la competenza… e l’autorità che nasce dall’inevitabile contratto sociale.

Poi - non sembri poco - Dio è pantokratōr! Lo professiamo ogni domenica a messa: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente». Dio è dunque sommo potere e, come dice Gesù a Pilato, ogni potere viene da Dio, dall’alto (Gv 19,11). Essendo poi per sua natura Amore (1Gv 4,8.16), Dio è sommo potere ispirato da sommo amore.
Tutti sanno però che in mano agli uomini il potere degenera, ed è bene mettere a nudo che il potere degenera astutamente e abilmente. Degenera mimetizzandosi e mascherandosi, magari proprio con la maschera dell’amore: si fa filantropico, benefattore, paternalista, suasivo. Basti pensare alla caramellina del pedofilo, alle astuzie buoniste della pubblicità, al superiore che, quotidianamente dispotico, se deve chiederti un favore, lo fa con una cortesia che ti scioglie come fa la fiamma con la candela: queste maschere cadono, però, non appena il potente capisce che hai capito. E allora sono punture di spillo o sono fulmini, a seconda delle contingenze e del momento.
Giovanni, autore dell’Apocalisse, è in assoluto uno dei più grandi smascheratori del potere, in particolare nei capitoli 12-13, dove dà vita alla Triade di drago (12,3-18), bestia che sale dal mare (13,1-9) e bestia che sale dalla terra (13,11-18).
Il drago osa andare all’attacco del Messia e dello stesso trono di Dio, ma Michele lo vince e lo precipita giù sulla terra. La scalata al cielo non è la sua via. La sua via è un’altra: è quella di farsi dei complici all’interno della storia umana. Accovacciato sull’arenile del mare, dal mare il drago attende infatti l’arrivo di un primo complice: la bestia con 7 teste (vitalità) e con 10 corni (potenza fisica), e a quella bestia il drago consegna il suo trono (potere politico).

Biguzzi 02Suscitare ammirazione

Il potere suscita sempre ammirazione, e nel racconto di Giovanni il potere della bestia, elevato a potenza dal drago, strabilia l’ecumene, e l’ammirazione diventa poi adorazione. Tutta la terra infatti prende ad adorare la bestia ed esclama «Chi è come la bestia?» (Ap 13,4), scimmiottando così l’interrogativo dell’uomo biblico di fronte al soverchiante mistero divino. L’adorazione resa alla bestia poi dà il via a un tripudio di potere. Ricorrendo per quattro volte all’espressione «le fu dato il potere di», Giovanni dice che alla bestia fu data una bocca per pronunciare enormità e bestemmie, che le fu data potestà di agire per quarantadue mesi, di far guerra ai santi e di avere dominio su ogni tribù, popolo, lingua e nazione. Tutta questa pioggia di potere termina come era cominciata: con tutti gli abitanti della terra che, ammaliati, adorano la bestia.
Per questo il demoniaco, incarnato nel potere storico, è l’«anti-Cristo» del quale hanno scritto non solo gli antichi (Didachè, Ippolito, Ireneo) ma per esempio anche Dostoevskij, Solov’ëv, Nietzsche e, in Italia, Umberto Eco.
Anche per il demoniaco c’è dunque come una legge dell’incarnazione, e le pieghe della storia in cui meglio può annidarsi sono i centri di potere politico e di culto. La condizione ottimale è che le due dimensioni, politica e religiosa, siano insieme come nel caso della bestia che cinge dieci diademi (potere politico) e che si fa adorare (potere religioso). C’è di più, perché Giovanni vede comparire un secondo complice, la bestia che sale dalla terra e che poi Giovanni chiamerà sempre «falso profeta», perché in essa la religione (cf. “profeta”) fa da copertura a qualcosa che è ben altro (cf. “falso”). E qui Giovanni fa capire quanto sia micidiale la miscela di politica e di religione.

Distinzioni dei poteri

Della prima bestia il falso profeta promuove l’immagine soprattutto sul piano religioso: induce la terra da cui proviene ad adorare la bestia e, ricorrendo a prodigi come quello di far scendere fuoco dal cielo, induce a costruire di essa una statua che addirittura fa diventare statua parlante perché tutti siano meglio indotti ad adorarla. La sua propaganda si tinge poi di sangue perché coloro che non accettano di adorare la statua idolatrica sono messi a morte. Nel suo attivismo, infine, il “profeta” marchia con il nome della prima bestia la mano destra o la fronte degli adepti così che nella loro stessa identità (la fronte) e nel loro agire (la mano destra) aderiscano alla bestia e le rendano adorazione. Addirittura invadendo il campo dell’economia e del commercio, quel “ministro della propaganda e del culto” decreta che nessuno possa comprare o vendere se non ha quel marchio. Le tentazioni del potere descritte dall’Apocalisse hanno dunque propaggini in ogni direzione: dal demoniaco con i suoi inganni, fino alla tessera di partito da esibire per poter comprare o vendere.
Giustamente Giovanni aveva introdotto il falso profeta dicendo che ha due corni come di agnello e che però ha voce come di drago (13,11): vorrebbe apparire profeta attraverso la somiglianza con il Cristo-Agnello ma, falso profeta qual è, il barrito da drago-Satana lo tradisce.
È così che Giovanni di Patmos ha saputo parlare del potere come pochi hanno saputo fare, tanto che lo si potrebbe definire il “teologo” del potere. In effetti, dopo aver letto il suo libello, il lettore conosce meglio le molte tentazioni del potere, le sue astuzie, strumentalizzazioni, insidie e menzogne e, sul versante positivo, la sua indispensabilità, le sue possibilità, i suoi benefici, e soprattutto la sua origine paradigmatica in Dio.
Per quanto possa suonare paradossale, in fondo l’atto di fede è un atto di fede nel potere: il potere, beninteso, di Dio. Dire ogni domenica «Credo in Dio, Padre onnipotente» significa saper vincere alla radice la tentazione di adorare i detentori umani di potere, significa subordinare i signori di questo mondo al Re dei re e Signore dei signori (Ap 17,14 e 19,16), e significa giudicarli con il metro di misura evangelico che è quello del «sono venuto a servire, e non a essere servito» (Mc 10,45).