Pur di proteggere il cuore sacro

Pericoli e vantaggi dei social network con la consapevolezza del limite

di Francesca Lozito
giornalista

Lozito 01La dismisura della barra blu

Nascite, morti, gioie e dolori. Sentimenti che vengono sbattuti e compressi in un ambito pubblico di parole. Equilibri e misure che spesso, troppo spesso non si conoscono. E poi vite “spiate”, gelosie declinate.

Li vedi al ritorno da una giornata di lavoro guardare in metropolitana compulsivamente i telefonini.

E c’è sempre quella barra blu di mezzo, che va su e giù “che è successo a tizio?”, “che è successo a caio?”. Ah dai vediamo un po’ ce lo dicono i social media! La barra blu, è ovvio, è quella di Facebook. La scena la vedo ripetersi ogni giorno.

Mi dà talmente tanto fastidio che da qualche mese ho operato una scelta radicale: io il social media più famoso del mondo l’ho tolto dal mio telefonino. Lo uso solo un paio di volte al giorno. Sera e mattina. Perché anche per me, è ovvio, è un modo per stare in contatto con alcune persone che non riesco a vedere quasi mai.

La scelta l’ho fatta un giorno in cui durante un viaggio di trasferimento da un luogo all’altro del mio lavoro ho messo un like di troppo.

Ero arrabbiata per i fatti miei e mi sono sfogata accanendomi su uno status velenoso di una amica.

Ma non ho visto per la fretta che l’oggetto dell’accanimento era uno scritto prodotto da una delle persone a cui voglio più bene e a cui devo molte delle gioie degli ultimi due anni della mia vita. Persona sensibile e autentica. Ho riflettuto. Ho sbagliato, ho chiesto scusa. E ho pensato: adesso si cambia.

Da allora l’unico social che ho sul telefonino è Twitter. Ma quello per me è essenzialmente uno strumento di lavoro. Di comunicazione e informazione. Veloce per definizione e quindi sullo smartphone deve esserci.

Spesso ho l’impressione che abbiamo qualche forma di dismisura nel mostrarci sui social media.

Da che pulpito lo dico visto che sei mesi fa ho scelto di mostrarmi ai miei cento (solo, perché per ragioni di lavoro ho scelto di avere un fake e di fare molta selezione in entrata) amici con l’occhio bendato dopo l’operazione. Semplice, ho operato una scelta: quello era il modo più veloce per dire sto bene, è andato tutto bene. Anche perché l’alternativa era per me impossibile in quel momento: significava scrivere e sorbirsi una serie di telefonate. Avevo bisogno di riposo.

E che piacere la sera di capodanno quando alcuni amici mi hanno detto «abbiamo visto che stavi bene, ti abbiamo pensata, siamo contenti».

Mi piace di meno, invece, quando ci sono persone che impigriscono gli affetti sui social. Le aberrazioni possono essere molte: dalla classica domanda «come stai?» agli annunci importanti tipo «mi sposo» o «sono incinta». Magari capita anche tra persone della stessa città che abitano nemmeno a chilometri di distanza e che non riescono più a muoversi per guardarsi negli occhi e dirsi quello che di certo avrebbero fatto senza Facebook. 

Lozito 02Così lontani, così vicini

The other side of the moon: avvicinare chilometri di distanza. Migliaia di chilometri di distanza. Ho una coppia di amici che vive negli Stati Uniti e ai quali mi sono affezionata soprattutto grazie ai social media. La mia vita sarebbe più triste senza di loro e senza i racconti della loro vita fatti attraverso Facebook con sapienza e intelligenza.

Così lontani e così vicini. È il villaggio globale, bellezza?

È questione di capacità di esserci, in un equilibrio su quello che si è davvero e non per quello che si vuole far passare di essere. Anche se poi, attenzione, si può pensare anche di essere “altro” da quello che si è sui social media. E si ha tutto il diritto di farlo. Per questo, per conoscersi davvero occorre toccare i pezzi di pelle. Sentire l’odore. Guardarsi negli occhi. E capire che si è reali.

Troppo spesso i social sono sfogatoi delle frustrazioni. Nei primi anni in cui sono nati molta gente li usava così soprattutto sul posto di lavoro.

Un collega un po’ di anni fa mi chiese di “spiare” un’altra collega, ingenua, alla quale non venne poi rinnovato il contratto: «Guarda cosa dice di me», «È arrabbiata?». Trovai orribile questa richiesta e da allora sfrondai dalle mie “amicizie” tutta una serie di personaggi che avevano questo chiaro intento. E attuai nello stesso tempo delle fortissime limitazioni, che è possibile mettere. Sono semplici, basta volerlo.

Il mio amico Claudio con la sua pacatezza toscana un giorno di un paio di anni fa mi disse «Fra, con Facebook non si fanno mica le rivoluzioni». Lui che un po’ profetico lo è sempre stato aveva di certo intuito che di lì a poco si sarebbero scatenate grosse guerriglie politiche sui social media. Innescate da formazioni che li sanno usare con molta sapienza elettorale.

Ma voi ci avete mai pensato in questo particolare contesto che magari state commentando uno status di un noto politico sulla crisi economica in allegra compagnia di una serie di troll?

E a quanto può far danni un hate speech, un discorso d’odio, ci avete mai pensato? Direte cosa c’entra con la vita privata delle persone. Cosa c’entra con il “mistero” di chi abbiamo di fronte. C’entra, c’entra eccome. Viviamo in un tempo di data: tutto quello che di noi si scrive in questi contesti tutto quello che si dice non sarà mai più parole al vento. Sarà memoria. 

La sfera intima

E senza scomodare Snowden, Glenn Greenwald e James Ball i data restano. E qualcuno ci spia, certo, perché le nostre parole servono a capire, orientare, convogliare non solo quello che pensiamo. Ma anche quello che sentiamo. E chi non se n’è ancora accorto è un ingenuo perché nega che siamo più che mai su una pubblica piazza. La scelta migliore non è quella di nascondersi. Di dire «no io sui social mai». Perché il rischio oggi è vivere un isolamento che sa di solitudine. Soprattutto in una società sempre più frammentata, di individui singoli.

I social sono anche un luogo di incontro. Basta sapere che puoi scegliere chi incontrare, che se vai in giro in stazione di sera da sola devi stare attenta. Che non ci si può dire parole grosse o importanti da dietro uno schermo. Perché ci si può ingannare. Perché la mescolanza tra pubblico e privato va dosata con cura. Perché il volto va mostrato, ma va anche protetto.

Perché i bambini vanno protetti e non mostrati o ipermostrati, fino alla follia del farli vedere nella sofferenza come ci insegna la recente vicenda Stamina in cui i social media sono stati teatro di un disgustoso “sbatti il bimbo sofferente in prima pagina” con l’avallo di genitori che si sono prestati a quello che il direttore generale dell’Aifa, Luca Pani, ha chiamato senza esitazione marketing diretto.

Perché possiamo usare i social, possiamo starci, sono come la televisione ormai.

Certo che sì. Ma non dobbiamo mai dimenticare che ognuno di noi ha un “cuore sacro”, una sfera intima. E non c’è status che può esprimerlo. E nessun like che può compiacerlo.