Parliamo del corpo umano, della sua duttilità e della sua capacità di adattamento. Della sua incredibile potenzialità di sopperire alle proprie manchevolezze e ai propri handicap, se trova la complicità dello spirito delle persone. Di come questo nuovo assetto finisca col diventare caratterizzante il nostro essere. Lo facciamo analizzando due film di Jacques Audiard: “Un sapore di ruggine e ossa” e “Sulle mie labbra”.

Alessandro Casadio

 

 

Rubrica Periferiche 01 Un sapore di ruggine e ossaUn sapore di ruggine e ossa

un film di Jaques Audiard

(2012)
distribuito da Rai Cinema, 01 Distribution

Il punto di vista della cinepresa di Audiard è dalla parte degli sconfitti. Quelle persone che per carattere o esperienza vissute o casi della vita annaspano ai margini della società, senza che alcuno senta il dovere di fare qualcosa per loro. Si tratta di persone socialmente poco interessanti che, pertanto, non si prestano nemmeno ad una rivendicazione di tipo politico o sociale: un padre a cui la ex moglie ha scaricato un figlio semisconosciuto, una ragazza determinata e socialmente inserita che, a causa di un incidente, perde le gambe e vede distrutta la vita in cui credeva. È da questa prospettiva che il regista ci racconta questa storia, rappresentando la fatica umana di ricostruire un’esistenza, con tutti gli strascichi e le contraddizioni che la precedente ha generato.

A partire da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, viene tratto un racconto cinematografico a tinte forti, temperato però da una scrittura delle scene spesso troncate. Questo singhiozzare della narrazione ripropone l’annaspare convulso di chi sott’acqua tenta di riemergere per sopravvivere, in una splendida metafora del rappresentato. Un equilibrismo che può anche infastidire ma che rende il film teso e aperto, senza mai rassicurare lo spettatore sullo sviluppo della trama.

Come spesso, nella filmografia di Audiard, corpo e spirito fanno tutt’uno, si ammaccano e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole. Al contrario, la comunicazione diventa più intima e più espressiva quando si avvale dei silenzi, di un linguaggio muto del corpo che permette di entrare nelle vere domande dei protagonisti, sia per quanto riguarda la futura realtà di disabile della ragazza, sia nello smarrimento del ruolo di padre per l’uomo. Si crea, nel silenzio, una complicità che approfondisce e cresce anche la relazione sessuale. In proposito, possiamo affermare che questo è uno dei rari film dove le scene di nudo non sono strumentali al vojerismo dello spettatore, ma trovano una loro essenzialità nel contesto del racconto.

Più che nel soggetto, la qualità del film si manifesta nell’introspezione dei personaggi, nelle sottili pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori, nella validità dei dialoghi, che documentano, fuori da ogni retorica, traumi e rinascite, la relazione indissolubile con il corpo in cui viviamo e il bisogno che abbiamo degli altri, anche per ricostruire ogni frattura creata in questo legame.