Complice l’uscita del suo libro su mons. Roncalli, abbiamo chiesto a Mariagrazia Zambon qualche anticipazione. Cosa ha significato per Roncalli trovarsi in Turchia e cosa Roncalli può insegnare, con il suo stile, a noi che oggi viviamo l’essere cristiani come minoranza, in un mondo in rapido cambiamento e in continuo dialogo con l’islam da una parte e la laicità dall’altra?

Barbara Bonfiglioli 

 

Rubrica Religioni in dialogo 01 (Tonino Mosconi)La formica dallo sguardo aperto

Un libro su san Giovanni XXIII, vescovo e pastore in Turchia

di Mariagrazia Zambon

missionaria laica in Turchia

L’arte di farsi amare

Chi, tra coloro che sono stati almeno una volta ad Istanbul nella casa dei cappuccini a Yesilköy, non ricorda fra Alberto Andreani e la sua semplice ed affettuosa accoglienza?

Fu proprio lui che, durante il mio primo anno in Turchia, mentre ero alle prese con lo studio del turco, mi fece conoscere la figura di Angelo Giuseppe Roncalli, mostrandomi fieramente dove più volte si era intrattenuto a pranzo il futuro “papa buono”, su quel massiccio e grezzo tavolone di legno nella cucina del convento. Quando lui era ancora un giovane, sprovveduto fraticello ventitreenne, e, spaesato, fu aiutato e incoraggiato a restare in quella terra del Medio Oriente proprio da mons. Roncalli, ora proclamato santo.

«E pensare che tutti lo credevano un sempliciotto, ma a me pareva già allora un furbo, un preciso, un metodico, un uomo meraviglioso. Mi piacque dal primo momento, quel prelato bergamasco perché non si dava importanza e questa fu la sua fortuna: si fece voler bene da tutti, con il suo linguaggio semplice conquistò i cuori, aprendo tante porte altrimenti inaccessibili. Benché in tanti lo considerassero un “ingenuo”, io lo stimai e lo ammirai come un vero pastore a disposizione di tutti, senza far preferenze per ricchi o poveri: per tutti aveva una parola buona, dolce e incoraggiante». Così fra Alberto mi descriveva l’allora mons. Roncalli delegato apostolico e vescovo in Turchia dal 1935 al 1944.

Rubrica Religioni in dialogo 02 (Tonino Mosconi)Fu proprio fra Alberto a farmi amare la figura di papa Roncalli facendomi scoprire suoi aspetti poco conosciuti e mi lasciò il desiderio di scrivere un libro sul periodo meno esplorato di questo personaggio che ha segnato profondamente la storia del Novecento e della Chiesa. Nasce così questo libro, che con grande rigore permette di conoscere la vita quotidiana, le preoccupazioni, le speranze e le tensioni che ha vissuto Roncalli nel periodo in Turchia.

Con questa opera ho voluto dare un piccolo - ma a mio parere prezioso - contributo per far comprendere le radici profonde dello stile pastorale e delle scelte profetiche che Giovanni XXIII maturò durante il suo pontificato, ma che hanno inizio, come ha ben sottolineato papa Francesco più volte, già nel lungo periodo trascorso in Oriente, prima in Bulgaria e poi in Turchia e Grecia. Dal modo di comunicare umile ed attento di Roncalli emerge, infatti, una paziente capacità di muoversi nell’ambiente diplomatico pur rimanendo soprattutto vescovo, pastore instancabile, che visita anche le parrocchie più sperdute, muovendosi in treno, magari su un carretto, per incontrare comunità anche di pochi anziani, insignificanti agli occhi del mondo, ma non a quelli di Dio.

Le immagini che lo descrivono

È così che ho scoperto diverse immagini amate da sempre da papa Giovanni.

La prima è quella di Roncalli tessitore: quei suoi dieci anni “turchi” sono stati un intrecciarsi di relazioni pazienti, con parole e gesti per annodare rapporti, costruire amicizie, tessere disegni di riconciliazione. A cominciare dalla piccola ma variegata porzione di popolo di Dio che gli fu affidata: il delegato apostolico lotta contro l’esasperazione dei nazionalismi, la grettezza delle chiusure, la pesante eredità di risentimenti secolari. Nella delicatezza delle relazioni ecumeniche e interreligiose, impara il lessico dell’“unità”; nel dramma di una guerra che getta i popoli su sponde diverse, trova le strade per far incontrare i nemici attorno al rispetto di vite umane innocenti: ha inventato la “diplomazia della mitezza”.

Un’altra immagine è quella della “formica”, così come emerge nella relazione che manda a Roma nel gennaio 1935, subito dopo il suo arrivo ad Istanbul: «Occorre lavorare tutti i giorni con molta calma spirituale e come formica». Egli rimarrà fedele a questo obiettivo, tanto è vero che circa un anno prima della conclusione della sua missione, cioè nell’ottobre 1943, ai suoi familiari di Sotto il Monte consiglierà di «attendere come le formiche che continuano il loro lavoro anche quando sta per scoppiare il temporale», così come stava facendo lui a molti chilometri di distanza.

A queste due immagini ne sono associabili altre due: «terra di reliquie e semi». Il lavoro tenace, continuo, metodico della formica ben si associa al seme, che, per produrre frutto, svolge un’attività «sotterranea, ma costante, umile, invisibile». La delicatezza e la cura del tessitore, poi, si accompagna bene alle reliquie, materialmente ben poco cosa, ma portatrici di una forza ultraterrena che richiede un trattamento delicato e accurato, simile a quello di chi tesse.
Strumento nelle mani di Dio

Nello scorrere le pagine delle agende scritte in quegli anni si comprende più profondamente come, da papa, abbia potuto stupire tutti indicendo un Concilio che si caratterizzò per la sua marcata “natura pastorale”, un Concilio ecumenico che, facendo «uso della medicina della misericordia piuttosto che della severità» consentisse alla Chiesa di fare un balzo in avanti, proponendo la dottrina tradizionale in un modo più adatto alla sensibilità moderna, perché la Chiesa Cattolica potesse riprendere a parlare al mondo e alle altre religioni, anziché arroccarsi su posizioni difensive.

Fu in Turchia, dove ogni angolo trasuda di testimonianze della storia del primo cristianesimo, che maturò uno sguardo aperto tra passato e futuro, con grande speranza e fiducia, cercando sempre il “buon seme tra la paglia”.

Nonostante le gravi difficoltà, mantenne il sorriso, la semplicità, la serenità, che erano il frutto di una profonda vita di preghiera e di unione con Dio, pur in un’attività incessante e tra impegni delicati e gravosi. Straordinari erano la sua fiducia e il suo abbandono alla divina Provvidenza, nella convinzione di essere chiamato ad essere strumento nelle mani di Dio per portare la pace tra gli uomini. Si trova in un appunto da lui scritto il 22 ottobre 1939: «Che magnifiche cose! L’onore più grande che i naviganti possono fare al pilota assiso al timone è che stiano quieti a dormire nei loro letti»: il delegato apostolico in Turchia e Grecia non si ritiene la guida della missione in Oriente bensì collaboratore di un’opera condotta da un Altro, da Dio, comandante della nave, di cui lui si è sempre sentito semplicemente un passeggero.

«Un conduttore condotto», dunque, come ben ha detto papa Francesco il 3 giugno 2013: «Qui sta la vera sorgente della bontà di papa Giovanni, della pace che ha diffuso nel mondo, qui si trova la radice della sua santità: in questa obbedienza evangelica».

 

Rubrica Religioni in dialogo 03Dell’Autrice segnaliamo:

Vescovo e pastore. Angelo Giuseppe Roncalli delegato apostolico in Turchia

San Paolo, Roma 2013, pp. 180