Nel racconto di Giacomo scopriamo tante risonanze africane, proprio mentre le missioni in terra d’Etiopia perdono una volontaria instancabile, la signora Bruke Bekele, etiope trapiantata in Romagna, morta il 28 febbraio, sempre pronta a preparare torte e cucinare i cibi della sua terra per gli amici dei missionari, e in particolare il Dawro Konta perde padre Raffaello, costretto dalla malattia a rientrare in Italia. In missione vuole ricordare a tutti, con le parole di papa Francesco, che l’impegno missionario non è riservato a poche persone coraggiose, ma a ogni battezzato.

Saverio Orselli

 

La solidarietà del povero

Intervista a Giacomo Gambi, consigliere comunale di Imola

 


Giacomo Gambi, ventitré anni, frequenta il quarto anno di giurisprudenza e nell’ambito giuridico immagina che si svilupperà il suo futuro. Nel frattempo, come “servizio” - oltre all’attività di capo scout - dalla primavera del 2013 è stato eletto nel Consiglio Comunale di Imola, nelle liste del PD. Tra gli atti, le delibere e le commissioni varie dell’attività di Consigliere e gli studi, è riuscito ad andare in dicembre a visitare il Dawro Konta.

Come mai hai scelto di fare il viaggio in Etiopia?

Mi è stato proposto da altri partecipanti, molto in ritardo rispetto ai normali tempi organizzativi. C’era ancora un posto e non mi è sembrato vero, anche perché era tanto che pensavo a un viaggio così. In tanti, reduci da altre missioni, mi avevano detto essere un’esperienza che lascia il segno, da cui si torna diversi e pieni di interrogativi, così, anche se non conoscevo la missione dei cappuccini, ho deciso di partecipare a questo viaggio.

Visto che non conoscevi quella realtà, cosa pensavi di trovare?
La descrizione del viaggio che mi era stata fatta (a dire il vero dopo che mi ero già iscritto) si può riassumere così: ci sono questi pochi frati che vivono in una regione grande come la Romagna e, visto che tutti i mesi devono andare a dire messa nei villaggi sparsi, i partecipanti al viaggio li avrebbero accompagnati in questo itinerario “liturgico” natalizio. Non posso negare che la cosa mi preoccupava un poco, ma la realtà si è rivelata decisamente diversa. Forse in passato è stato così, ma quest’anno si è trattato di una sorta di campo di lavoro e se in genere non c’è molto lavoro pratico, in questo caso si è decisamente fatto sentire e dopo venti giorni la stanchezza era notevole. Per vari giorni la nostra attività sembrava quella di un cantoniere, che non è tipica di uno studente, e anche se come scout materialmente me la cavo, tinteggiare in pochi giorni una scuola e una clinica lascia il segno mentre fare animazione coi bambini mi è più congeniale. Il fatto che ci siano state entrambe le attività mi ha reso ancora più contento.

Rispetto a ciò che ti aspettavi, cosa hai trovato?

Di sicuro l’attesa di confrontarmi con tante persone diverse non è stata delusa. Mi spaventava un po’ il programma “religioso”, ma lì iniziare la giornata con le lodi e concluderla con i vespri pregati in fraternità mi è sembrato quasi naturale. Non conoscevo nulla della missione e dei missionari e l’incontro con Renzo, Raffaello, Pacifico, Aielé, Joseph, Carla Ferrari, mi ha permesso di scoprire dei personaggi fenomenali. Nei miei appunti ho ritrovato lo stupore nel sentire Raffaello che, a quasi ottant’anni, pensa a nuove terre vicine al Dawro Konta, dove la gente avrebbe bisogno di loro. Alla sua età da noi si pensa ad altro, si sogna la massima stabilità, non certo di fare i bagagli per andare incontro ad altri nuovi bisogni, ad altra gente. Mentre lui pensa di partire ancora una volta, dopo avere aperto la strada per la missione nel Dawro, attraversando il fiume Omo in canotto… Grazie al confronto con missionari così, si capisce che è importante essere sempre pronti ad andare da chi ha più bisogno, senza cedere all’idea di godere dei frutti del lavoro fatto nella comunità avviata.

Dal punto di vista sociale quale realtà hai trovato?

Per questo ero totalmente impreparato. Arrivati, l’aeroporto di Addis Abeba non è diverso da quello di Sharm el-Sheik; è la realtà che si trova appena fuori che non immaginavo, con strade sterrate, fognature a cielo aperto… Nulla a che vedere con le nostre città di cemento diffuso, di strade asfaltate, di fermate di autobus. Strade di sassi, sabbia, enormi buche, attraversate da veicoli e da mandrie di animali che sembrano considerarle l’anomalia del paesaggio. E poi le case-tipo, dal tukul alla casetta a forma di parallelepipedo, fatta di pali di legno rivestiti di fango e sterco, in cui la convivenza fra uomini e animali è la norma. Anche da noi in passato al centro della casa c’era il focolare e il calore delle mucche veniva utilizzato grazie alla vicinanza della stalla alla zona dove viveva la gente, ma non c’era la condivisione degli stessi spazi come ho visto nei tukul. È una situazione che ho trovato sconvolgente soprattutto dal punto di vista igienico, perché uomini e animali hanno chiaramente esigenze diverse!

Venendo al tuo impegno politico, cosa ti ha lasciato questo viaggio in Etiopia?

Con una battuta potrei dire che nelle decine e decine di riunioni che si sono succedute dopo il ritorno, la testa non poteva che tornare a quei luoghi e a quelle persone, pensando a quanto avrebbero bisogno loro di aiuto e magari quanti qui avrebbero bisogno di confrontarsi con una realtà come quella, per capire meglio la propria. Certo la nostra città ha priorità diverse da quelle di un villaggio, ma mentre in commissione parlavamo di prestazioni sanitarie specialistiche in ospedale, ripensavo a Gassa, dove manca l’ospedale. Ho tenuto un diario quotidiano con riflessioni su quel luogo e su questo, in particolare sui due valori che considero più miei: la scuola e la sanità. Nel Dawro non si rischia di morire di fame, salvo per carestie eccezionali come fu negli anni Novanta, ma sia il settore sanitario che quello scolastico mi sono sembrati pesantemente carenti, nonostante l’impegno dei missionari. Un episodio significativo ci è capitato un giorno in cui stavamo tornando alla missione dopo aver trasportato un carico di pali dietro un monte, per la costruzione di una cappella. Visto che ci inseguivano frotte di bambini, ho chiesto a padre Aielé cosa stessero facendo e lui mi ha risposto che stavano andando a scuola. Ho chiesto allora quale fosse l’orario di inizio delle lezioni, dato che era passata l’una e lui mi ha risposto che sarebbe stato il mezzogiorno; alla mia curiosità di capire come potessero reagire gli insegnanti a quel ritardo, ha ammesso che è difficile arrabbiarsi con bambini che per tutta la mattina hanno accudito gli animali e, dopo averli portati al pascolo, finalmente vanno a scuola. Manca di tutto, compreso gli orologi, per cui ogni bambino deve imparare a essere una sorta di meridiana e leggere l’ora grazie all’ombra proiettata sul terreno. Lo stesso quadernetto su cui studiano di tutto è niente rispetto ai sussidiari che i nostri bambini maneggiano da subito. Sarebbe sicuramente necessario investire di più sulla scuola, a partire dalle elementari che comunque sono a pagamento, per quanto minimo. Se prima delle elementari, almeno dove sono presenti i frati, gli asili ci sono, è terribile pensare che un bambino non possa andare a scuola perché non ha i soldi per pagarla o perché in un villaggio troppo distante per raggiungerla.

Rubrica in Missione 03 Gambi (Ivano Puccetti)Un discorso analogo lo si potrebbe fare per la sanità, vista la carenza delle strutture. Certo se non ci fossero persone davvero fantastiche come Carla, l’Ancella dei Poveri, o padre Raffaello, sarebbe un problema. Se penso all’età di entrambi, alle loro rughe che sembrano volerti raccontare, con umiltà e semplicità, una quantità di storie stupende e coraggiose, sono ancora più contento di aver fatto questo viaggio.

Ti sei confrontato anche solo per un attimo con il triste ruolo che è stato degli italiani - dei nostri nonni o bisnonni - in Etiopia?

Su questo non avevo riflettuto, lo ammetto. In realtà un contatto indiretto l’ho vissuto in aereo nel viaggio di andata, quando la persona seduta accanto a me da Bologna ad Addis Abeba mi ha raccontato la sua storia di figlio della colonizzazione, con il padre italiano che l’ha riconosciuto solo quando era già diventato grande e la madre etiope armata di grande coraggio, capace di farlo crescere e di fargli apprezzare l’Italia, nonostante tutto.

Tutti i Paesi che hanno colonizzato l’Africa, dovrebbero pensare a come l’hanno lasciata, spesso in mano a regimi fedeli che hanno peggiorato la situazione, colpe che non credo basti a cancellarle il volontariato o l’impegno dei frati. In Etiopia, in Somalia, in Eritrea, così come in Libia.

Oggi colpisce la presenza massiccia di cinesi; ne avevo sentito parlare, ma non immaginavo la dimensione del fenomeno, così come fanno impressione le megaserre per la coltivazione intensiva dei fiori che finiscono nel mercato europeo, prodotti senza troppe precauzioni e con anticrittogamici che da noi sono vietati: è una forma di colonialismo che continua…

Da anni l’Italia vive una situazione di crisi: quale effetto ti ha fatto confrontarla con quella che assieme ad altri hai definito «la povertà intensa e dignitosa» del Dawro?

Provocandoci, un padre a Baccio ci ha detto: «Quando tornate in Italia ditelo cosa significa povertà: c’è la povertà di chi non ha da mangiare e muore di fame e la povertà di chi non ha lavoro, ma tra le due povertà c’è molta differenza!». Era una provocazione e non posso certo dire che non sia un problema non avere più un lavoro, però è sicuramente importante avere un sistema che in qualche modo cerca di dare un sussidio a chi è in difficoltà. Le nostre tutele sono impensabili in un luogo in cui ognuno dietro casa ha il suo piccolo campo che coltiva e che, in caso di carestia, si ritrova senza niente. Aver visto quella realtà porta a comprendere quanto abbiamo e anche le priorità, nel tempo, devono essere riviste. Di sicuro colpisce il loro modo di prendere la vita con il sorriso, senza tutto il nostro stress e con ritmi più concilianti con la famiglia. Là si vedono i crocchi di gente che parla, mentre i nostri parchi a Imola, di cui ci vantiamo tanto, sono sempre più vuoti… Certo è difficile un confronto tra realtà tanto diverse: qui una crepa in una classe è il problema, là se piove forte si scioglie la scuola. Il contatto con quella situazione fa rivedere sotto una luce diversa la nostra, e anche l’impegno politico non potrà che trarne beneficio. Non dimenticherò mai la loro capacità di condivisione, con offerte incredibili e generose portate all’altare perché siano distribuite a chi nella comunità è nel bisogno. Ognuno porta e condivide quel che ha per chi è in difficoltà, sperando di ricevere altrettanto quando potrà essere nel bisogno. Un insegnamento che vale per tutti.