Rubrica in Convento 03 Gioacchino 01 (Archivio Provinciale)Fioretti cappuccini

 

Come frate Gioacchino fu salvato dalla sua mula

Da giovane frate Gioacchino aveva una mula come compagna nella questua del convento di Imola. Era un gran bella bestia, a cui dedicava le cure di un innamorato: fieno in abbondanza, acqua fresca da bere e pulizia tanto accurata da renderla lucida come un paio di scarpe nuove.

Ne ammirava l’intelligenza, la fedeltà e la forza, tanto che mai si separava da lei e mai l’avrebbe barattata con un’altra più giovane. Lasciava capire che avrebbe dato anche la vita per quell’animale, che lui considerava un autentico dono del cielo, perché i muli, si sa, non sono tutti uguali: ognuno ha il suo carattere, spesso imprevedibile e bizzoso. Ma non quella mula, docile, affidabile e sempre pronta ad accompagnarlo nella questua. Frate Gioacchino non aveva scrupoli di salire sul carro trainato dalla sua compagna d’avventura per schiacciare un sonnellino, perché la mula le strade le conosceva tutte a memoria. Solo quando incontrava altri animali o se il carro era troppo carico, allora doveva scendere per guidarla tenendola per la cavezza.

L’autunno di quell’anno - eravamo ancora in piena guerra - frate Gioacchino stava battendo le campagne alla cerca dell’uva. Si era alla fine della vendemmia e già si sentiva nell’aria l’acre odore del mosto in ebollizione nelle cantine. Un giorno, quando ormai stava calando il sole, alcuni contadini lo invitarono ad assaggiare un bicchiere di vino nuovo. Al frate non spiaceva affatto il vino, anzi! E poi agli amici non si poteva dire di no. Lasciò sull’aia la mula, sicuro che non avrebbe combinato nulla di strano, e raggiunse in casa gli amici contadini, quelli più anziani, che meglio conosceva, per l’assaggio. Non fu proprio solo un assaggio, perché un bicchiere di vino nuovo, tra una chiacchiera e l’altra, ne tirava subito un altro. Quando sentì il calore scaldargli il naso, disse agli amici di bevuta: «Devo andare, perché ormai si fa buio, e la mula deve riposare».

Quando uscì, la testa gli girava un po’, ma fece del suo meglio per dirigersi verso la mula. «Beh! Sa l’ha fat?» (Beh! Che cosa ha fatto?), si disse. La mula era sdraiata, immobile, quasi non dando segni di vita. Frate Gioacchino si preoccupò, perché mai l’aveva vista così, ma il brutto venne quando tentò di farla rialzare. La mula, incitata dalla voce del frate, cercava, sì, di rimettersi in piedi, ma ogni sforzo risultava inutile. Barcollava e ricadeva. «Ma che cosa ha fatto la mia mula, sempre così brava?», si chiedeva il frate. «Sarà perché è stanca. È da gran tempo che giriamo per la campagna», si consolò. Che cosa era avvenuto?

Mentre frate Gioacchino si trovava in casa a degustare il vino nuovo con i contadini amici da lunga data, i giovani erano andati a spillare dai tini un secchio di mosto in ebollizione e avevano abbeverato la mula, a cui non dispiacque affatto quella bevanda mai gustata prima. Con il risultato che anche sulla mula l’effetto del vino nuovo non tardò a farsi sentire, e in maniera pesante. Piano piano le sue gambe si fecero molli, sempre più malferme, tanto da adagiarsi sull’erba e addormentarsi.

A frate Gioacchino, che ancora non riusciva a comprendere tale comportamento, non rimase che rinunciare a tornare in convento con una mula che non si reggeva in piedi. D’altronde anche lui avvertiva di avere le gambe un po’ insicure. Sicché dovette chiedere ospitalità ai contadini per quella notte,Rubrica in Convento 04 Gioacchino 02 (Archivio Provinciale) nella speranza che il riposo della notte avrebbe restituito alla mula la sua piena forma. Si accomodò nella stalla: lui sdraiato su un letto di fieno e la mula accanto a sé, dopo averla trascinata lì con l’aiuto dei giovani contadini. A frate Gioacchino la stalla sembra girargli tutta attorno, ma la mula non dava segni di accorgersene. Dopo un po’ anche lui si addormentò. Finalmente venne il mattino e frate Gioacchino, risposato e pienamente in sé, fece per rialzare la mula. Ma che fatica! Ci volle del bello e del buono per farla uscire dalla stalla e a riattaccarla al carro. Il frate era sempre preoccupato delle condizioni della mula, e non ne face mistero con i contadini, i quali, alla fine, cedettero al rimorso per quello scherzo innocente: gli assicurarono che la mula era in perfetta salute, rivelandogli il mistero di quel malessere: un secchio di vino nuovo. Frate Gioacchino non se la prese più di tanto, perché sapeva che sarebbe dovuto tornare in quella casa alla questua del fieno, del grano, delle uova, del formaggio e, ancora una volta, dell’uva. Ma non più di vino nuovo. Nemmeno pensarci.

Così, dopo aver salutato gli amici contadini e ringraziato del buon vino nuovo, riprese la via del convento. La mula aveva ancora la vista annebbiata e buttava le gambe di traverso. Il frate la incitava, quasi spingendola, ma quella aveva un ritmo di passo che più lento non poteva essere. Poi, come Dio volle, frate Gioacchino giunse in convento. Staccò subito la mula dal carro, e la riportò nella stalla, dandole una buona dose di fieno.

Qualche giorno dopo, quando la mula aveva ormai smaltito del tutto la sbornia e riacquistato il suo temperamento docile, frate Gioacchino si incamminò con lei verso la campagna di Castel Bolognese alla questua del formaggio, una questua a cui ci teneva particolarmente, perché lui, i formaggi, li faceva durare tutto l’inverno, anche a costo di farli indurire, buoni solo per la grattugia. Teneva per le redini la sua mula e le camminava avanti. I formaggi che gli venivano dati di casa in casa li infilava in due sacchi, pendenti uno da una parte e l’altro dall’altra dalla schiena dell’animale, e così fino a riempirli. Ormai si faceva sera e frate Gioacchino, soddisfatto per tutto quel ben di Dio, riprese la via del ritorno.

Si era in pieno territorio di guerra e ogni tanto frate Gioacchino avvertiva, seppure in lontananza, il rumore degli spari di mortai e dello scoppio di granate. Era ancora in aperta campagna, quando gli scoppi si fecero più vicini. Frate Gioacchino affrettò il passo, quasi tirandosi dietro la mula, per giungere il prima possibile in convento. Fu proprio in quel momento che avvertì un colpo di mortaio proprio dietro a lui. Frate Gioacchino si sentì come sollevato in aria e poi gettato a terra. Si rialzò, e vide quello che mai avrebbe voluto vedere. La sua povera bestia era stata colpita da dietro, ed era stata scaraventata tutta sventrata nel fosso di fianco alla strada, mentre lui non aveva subìto neppure un graffio. Quando si riebbe dallo stupore, ebbe coscienza di trovarsi solo e senza la sua amica mula. Nemmeno i formaggi si erano salvati da quell’inferno: si erano come sbriciolati per lo scoppio ed erano sparsi tutt’attorno, arrossati dal sangue nell’animale. Si rialzò, e si trovò a piangere. Non per sé e neppure per i formaggi, ma per la mula. Sentiva dentro di sé un dispiacere infinito per aver perso la sua compagna di questua, verso la quale lo legava non solo l’affetto, ma ora anche la riconoscenza per averlo salvato: se non ci fosse stata la mula a ripararlo dallo scoppio, sarebbe andato lui a gambe all’aria nel fosso.

Quando tornò in convento e il frate guardiano se lo vide comparire davanti senza né mula né formaggi, pensò che avesse sistemato l’animale con il suo carico da qualche parte, ma frate Gioacchino sgombrò via ogni dubbio: «La guèra! Azidènt a la guèra! Un m’ha purté via la móla e i furmài!» (La guerra! Accidenti alla guerra! Mi ha portato via la mula e i formaggi!). Il frate guardiano si fece raccontare tutto, poi concluse: «Beh, troveremo un’altra mula da qualche parte».

La mula che venne dopo non riuscì mai a far breccia nel cuore di frate Gioacchino. Era un animale svogliato e pigro, che mai fece nulla per fargli dimenticare la “sua” prima mula, quella che gli aveva salvato la vita.