Una nuova idea di pace

Il bene che crea integrazione contro i mali della guerra

di Pier Paolo Balladelli

imolese, medico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite

 

Balladelli 01 (Pier Paolo Balladelli)Colloqui cosiddetti di pace

La neve è spessa nei pressi del bunker usato per gli “incontri di pace”, nei pressi di Osijek in Croazia, nell’inverno del 1995. Le due delegazioni con le autorità sanitarie serbe e croate arrivano quasi contemporaneamente all’incontro.

I capi delegazione sono psichiatri. Mi chiedo se la scelta di un capofila psichiatra sia stata voluta per fiaccare la resilienza degli avversari attraverso l’uso di strumenti psicologici. Sono teso perché da questo incontro può dipendere un accordo sanitario importante per facilitare l’integrazione dei servizi sanitari e della popolazione della Slavonia Orientale nella repubblica croata che è diventata recentemente indipendente. Invece sono più minacce che accordi quelli che scaturiscono da un processo durato quasi due anni. «Vedrete galleggiare i corpi dei vostri sul fiume Sava», dichiarava all’altra una delle due delegazioni. Pochi anni prima, nel 1991, era stato commesso un crimine di guerra su 264 pazienti croati, uccisi a sangue freddo nei loro letti all’ospedale di Vukovar. Una pulizia etnica per un antico odio razziale. Un giornalista sostiene che le differenze tra Serbi e Croati non sono maggiori di quelle esistenti tra i bolognesi e i napoletani. Ci spiega che, in realtà, alla base del conflitto starebbe una polemica sulla proprietà delle aree rurali ed il controllo del commercio.

È l’anno 1998 quando mi trovo bloccato nei pressi di Kitgum nel nord dell’Uganda dal gruppo guerrigliero del LRA (Lord’s Resistance Army), guidato da Joseph Kony. Sequestrava bambini a partire dai nove anni di età. Si parla di 66.000 bambini, in una guerra durata più di 20 anni e che ha prodotto più di 2 milioni di sfollati. Kony si riteneva una specie di dio in terra e diceva ai suoi bambini soldato che potevano attaccare senza paura di essere uccisi perché immuni alle pallottole dei nemici. Nello stesso anno, per le vie di Kigali in Ruanda, dove l’atmosfera tra tutsi e hutu si taglia ancora con il coltello, mi chiedo come sia stato possibile che, in 100 giorni, siano state massacrate quasi un milione di persone - mediante colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati. Tre anni dopo, con l’OMS stiamo percorrendo gli altipiani di Lubango, in un’Angola martoriata da una guerra che dura da 28 anni, alimentata dall’opportunità di arricchimenti legati allo sfruttamento e al commercio di diamanti e di giacimenti petroliferi. Una decina di camion trasportano farmaci e vaccini verso le periferie del paese per coprire i bisogni medici delle popolazioni più martoriate dalla guerra. Ci domandiamo come raggiungerle nel mezzo del conflitto. La Chiesaci viene in aiuto per distribuire le medicine. Le due parti in guerra chiudono un occhio e lasciano che le famiglie dell’esercito ribelle, circa duecentomila persone, possano essere accudite dagli operatori sanitari per vaccinare i loro bambini.

 

Balladelli 02 (Pier Paolo Balladelli)Asserviti dagli uni e dagli altri

In Colombia, nel 2006, una raffica di mitra di un commando delle FARC sul fiume del Chocó ci avvisa che stiamo entrando in un territorio da loro controllato. Non hanno nozione che abbiamo già l’autorizzazione dei loro capi per svolgere un’azione di carattere umanitario nelle comunità di pescatori segregate dal conflitto. Sono collettività rurali spesso obbligate a fornire cibo e mano d’opera gratuita alle parti in conflitto, guerriglieri, paramilitari, esercito nazionale. La loro urgenza oggi è quella di appoggiare chi chiede favori con un’arma in mano. Vogliono evitare rappresaglie immediate. Domani, purtroppo, la fazione opposta chiederà loro conto di quei favori di oggi e, chissà, saranno vittima di rappresaglie. Questi villaggi si trovano coinvolti, loro malgrado, in una lotta all’ultimo sangue tra gruppi clandestini e con l’esercito per il controllo del territorio. Il narcotraffico cerca di garantire la produzione della droga ed i canali per la sua distribuzione.

E oggi è il turno della Siria. Da tre anni è in corso una guerra senza nome che, secondo le stime, ha già mietuto più di centomila vite. Il bilancio, oltre ai morti, comprende anche sei milioni di sfollati in Siria e più di tre milioni di rifugiati in Giordania, Libano, Iraq, Turchia ed Egitto. Varie migliaia anche in Africa del Nord e, persino, in Italia. Anche le comunità immerse nella povertà che ospitano i rifugiati si trovano allo stremo per la pressione economica e sociale a cui sono sottoposte. Gli arrivi hanno prodotto una competizione tra famiglie in povertà estrema per posti di lavoro e per accedere ai servizi sociali. L’opposizione al Governo siriano comprende un migliaio di gruppi armati che differiscono tra di loro per ideologia o per religione, e che vanno dagli integralisti islamici di Al-Nasra a Al-Qaeda. In questi giorni, mentre mi avvicino a donne, bambini, uomini vittime della guerra per capire meglio le condizioni sanitarie e umane in cui versano, a Zahla, nella valle della Bekaa in Libano, mi si ripresenta la stessa domanda di sempre: perché la guerra? Cosa si potrebbe fare per mettere fine a questo conflitto? Quali sono le condizioni che ne consentono lo sviluppo e ne determinano permanenza e continuità? Quali le responsabilità delle parti in causa? Quali quelle degli altri paesi? E le vittime del conflitto, tutta questa gente che è dovuta scappare per non soccombere, come aiutarla senza creare fenomeni di dipendenza dagli aiuti ed evitando di fiaccare la loro già debole resilienza? Possiamo con una certa approssimazione definire una mappa di chi sono i “buoni” e i “cattivi” all’origine di queste guerre?

Sappiamo che le negoziazioni di pace cercano di raggiungere il miglior equilibrio possibile di interessi tra le parti. Ma chissà, magari l’approccio è fallito in partenza se il contesto mondiale rimane quello di una permanente lotta economica tra popolazioni e classi sociali che cercano di aumentare il loro profitto a scapito di altre, senza regole e solidi principi di etica e solidarietà.

 

Balladelli 03 (Pier Paolo Balladelli)Le disuguaglianze diventano abissi

Se analizziamo con attenzione le tendenze a livello globale e nazionale, possiamo facilmente renderci conto che le disuguaglianze economiche e sociali tra i paesi e, anche all’interno dei paesi, tra regioni e gruppi di popolazione sono purtroppo in aumento. Gruppi e famiglie già enormemente avvantaggiate utilizzano il vantaggio che hanno acquisito durante gli anni per rafforzarsi nel potere e per incrementare la propria ricchezza. Queste famiglie spesso si avvalgono appunto di posizioni di potere in uno Stato per proteggere i loro interessi economici, arrivando addirittura a cambiare le leggi dello Stato a loro vantaggio. In vari paesi, ci si avvale del fomento di sentimenti nazionalisti per giustificare la necessità di un conflitto; a volte questo consente anche di distrarre l’opinione pubblica dai vantaggi che i fomentatori stanno ottenendo grazie al potere e alla ricchezza accumulata.

Se seguiamo questo ragionamento, la guerra è architettata spesso da gruppi di interesse e famiglie che hanno l’obiettivo di promuovere per se stessi vantaggi economici, rafforzandosi vieppiù nel potere. Per completare il quadro, le condizioni ideali, che spesso consentono di scatenare un conflitto di grandi proporzioni come sono le guerre, sono quelle di una marcata disuguaglianza tra gruppi e individui.

Si tratta di disuguaglianze evitabili per l’accesso a beni collettivi quali la salute, l’educazione, le opportunità di lavoro, la casa, l’acqua, l’abitazione e quant’altro necessario per lo sviluppo umano.

Il bene in questa situazione è rappresentato da tutti quegli sforzi autentici e concreti indirizzati a sviluppare una cultura e condizioni di uguaglianza e solidarietà tra i popoli, le nazioni e gli individui.

Il male, all’opposto, potrebbe essere dal mio punto di vista la promozione delle differenze evitabili, basate su una cultura di “antivalori”. Ricchezza e potere che si fondano sulla promozione di vantaggi di individui e gruppi su altri. L’accesso ai beni pubblici come acqua, sanità, educazione, lavoro, abitazione dignitosa deve essere davvero situato al centro delle nostre attenzioni e del dialogo sociale e politico.

Sì, mi piacerebbe tanto investire risorse e impegno per costruire un dialogo sereno e serio dove si possa pianificare e costruire insieme una società basata su valori e comportamenti etici. Non solo non ci sarebbero più le guerre ma ci si potrebbe occupare di accompagnare con più energia individui e famiglie svantaggiate nel percorso che porti alla loro piena integrazione nella società, una collettività davvero occupata a lavorare per l’uguaglianza tra i popoli e tra le persone.