In compagnia dell’anello

L’utopia raggiungibile di chi segue la propria chiamata

di Paolo Gulisano

scrittore

 

Gulisano 01 (Andrea Fuso)Il religioso radicato alla storia

Il Signore degli Anelli pubblicato sessant’anni orsono da John Ronald Reuel Tolkien, professore di Filologia a Oxford e autore per passione di libri di letteratura fantastica, è ormai riconosciuto come un grande classico del Novecento.

Solo una critica malevola ha cercato di ridurre la portata di quest’opera che si potrebbe definire neo-epica alla dimensione ristretta di un romanzo per ragazzi. In realtà si tratta di un libro che possiede una visione epica e mitologica accostata ad una teologia della storia. Come ebbe a spiegare l’autore stesso, «Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo». (J.R.R.Tolkien, H. Carpenter, C. Tolkien (a cura di), La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973, Rusconi, Milano 1990, p. 195).

Il grande scrittore inglese, che come abbiamo letto era permeato di un profondo senso religioso, attinto direttamente alla scuola del beato cardinale Newman, nel romanzo non esplicita mai le preoccupazioni derivanti dal male con teorie filosofiche o morali, ma parla al cuore degli uomini con il linguaggio del mito e della fiaba, ricordando loro l’esistenza di cose belle e di un bene da perseguire. Così lo spiegava anche a suo figlio Christopher, chiamato ad arruolarsi nell’esercito durante la Secondaguerra mondiale, invitandolo a rifiutare le armi e quindi il male: non è possibile usare l’Anello (il Male) con la pretesa di fare del bene.

 

Gulisano 02 (Andrea Fuso)Un cammino per tutti

L’impresa narrata nella storia che ha sullo sfondo la Terra di Mezzo non è semplicemente un conflitto magari un po’ manicheo tra buoni e cattivi, ma è un cammino intrapreso sia da piccoli hobbit come da grandi cavalieri quali Aragorn o Faramir al fine di risvegliare le proprie facoltà e comprendere il compito che ognuno è chiamato a svolgere. Così Aragorn si assume lo stesso incarico che fu, secondo Tolkien, già di Carlo Magno: costruire un impero fondato sull’esperienza del Sacro unificando tutti i “barbari”. Aragorn è il “re che ritorna”, il cavaliere che compie un’impresa, ritrova l’amore, riporta la vittoria e restaura il regno, incarnando così tutti i canoni tradizionali dell’eroismo tipici dell’epopea cavalleresca. Il male che egli è chiamato a combattere è sia spirituale che fisico, per questo Tolkien gli attribuisce le qualità degli antichi re taumaturghi, appellativo dato ai re francesi ed inglesi cui, almeno fino alla prima metà del XVIII secolo, venivano attribuiti dal popolo poteri di guarigione dovuti alla natura divina della loro regalità. Così anche Aragorn guarisce con il suo tocco Faramir, ferito nella battaglia dei campi del Pellenor, «perché le antiche saghe dicono: Le mani del re sono mani di guaritore. E in tal modo si poteva sempre riconoscere il vero re». Nel tocco salvifico di Aragorn possiamo ritrovare la base dell’annuncio cristiano della salvezza, possibile per chi segue il vero Re che ha vinto la morte risuscitando Lazzaro e ha lasciato ai suoi discepoli il potere di sanare e quindi di salvare.

Il ruolo di Frodo, rivestito anche dagli elfi, è invece quello di testimonianza esemplare: con la sua stessa vita, le debolezze, le difficoltà mostra la via da percorrere per arrivare a compiere il bene personale ma soprattutto quello degli altri. Egli però, alla fine della sua missione, sta per cedere alla tentazione di tenere l’Anello per sé dopo così tante fatiche, ma Gollum, quasi come una sorta di intervento della Provvidenza, gli si scaglia addosso strappandogli l’Anello (che da sempre voleva riprendere per sé) e precipitando nelle fiamme del Monte Fato.

La Conteaè stata salvata, ma non proprio per mano di Frodo che quindi ottiene la salvezza per sé e per gli altri non come conquista ma come dono: egli infatti “ha fallito”come eroe, ma la sua umiltà lo ha nobilitato e salvato, facendo trionfare così il vero eroismo cristiano della rinuncia.

 

Gulisano 03La grazia che ferma il male

Il compito della vita è quello di sanare ciò che è malato, elevando così il proprio spirito, riconciliando la propria natura con quel dono proveniente dal divino definito “grazia”.

Il modello che meglio incarna tutto ciò è sicuramente quello degli elfi: creature non del tutto perfette e non del tutto immuni da difetti, ma che incarnano le maggiori virtù e sono le più dotate rispetto all’arte (che Tolkien ha sempre visto come “sub creazione”, cioè realizzazione di opere a immagine di Dio e della sua creazione). Nessuno più di loro infatti persegue le virtù naturali di lealtà, fedeltà, onore, rispetto ed amicizia. Vivono in perfetta armonia con la natura e quindi sembrano ricordare agli uomini la bellezza del creato e sono inoltre testimoni dell’arte, della cultura e di una civiltà elevata e virtuosa. Nella teologia medievale la bellezza sensibile era considerata come riflesso, come traccia di Dio, che ne può favorire la percezione. Tolkien riprende quest’idea di bellezza come luce della forma e splendore della verità: diventa così grazia Galadriel, la dama degli elfi, la cui figura, come l’autore confermò all’amico padre Murray, può essere accostata a quella della Vergine Maria. Entrambe sono consolatrici, misericordiose ed elargiscono buoni consigli. Abbiamo così il tema della Grazia che permea tutta l’opera tolkeniana in generale e che ci viene rivelata attraverso il linguaggio simbolico del mito. La grazia è ciò che può fermare il male.

L’Unico verrà infine distrutto tra le fiamme del Monte Fato, mettendo così fine al dominio e alla potenza di Sauron. Egli comunque non era che una semplice manifestazione del Male, e l’Anello un semplice oggetto forgiato da egli e di conseguenza, anche una volta sconfitto l’Oscuro Signore e l’Anello distrutto, il Male non sarà debellato del tutto, come viene chiaramente profetizzato da Gandalf: «l’ombra sorgerà di nuovo ma non succederà più […] che un demone malvagio si incarni in un nemico fisico; l’Ombra influenzerà gli uomini, e creerà i mezzi-diavoli e le divinità imperfette».

Con grande realismo, un realismo decisamente cristiano, Tolkien conclude la sua epica dicendoci che “altri mali verranno”, che la lotta con il male non avrà termine se non con il giudizio finale. Ma il compito che tocca a noi, a chi vive qui ed ora tra le varie traversie del mondo e di noi stessi, è «lasciare a chi verrà dopo di noi terra buona da coltivare, estirpando il male dai campi che conosciamo». Non un’utopia, dunque, ma un compito concreto, realistico, possibile per ognuno. Non c’è bisogno di essere dei supereroi per farlo, ma solo persone che seguono una chiamata.

 

Dell’Autore segnaliamo il volume:

Il mito e la grazia

Àncora, Roma 2007, pp. 224

e il sito personale:

www.paologulisano.com