Scorciatoia per il male

Ricordo della pia suora, che mi insegnò ad odiare

di Alessandro Casadio

della Redazione di MC

 

Casadio Alessandro 01Madre, tutrice, aguzzina

Suor Maria Ermelinda gestiva una casa di accoglienza per la riabilitazione dei ragazzi disabili al Lido di Venezia, definizione altisonante per una sorta di brefotrofio, dove venivano ospitati i disabili di famiglia benestante, con disagio per la vergogna di avere un figlio così.

Se i miei genitori avessero colto per tempo il retro della facciata, io non sarei stato lì, in quell’estate del ’67, a beneficiare delle “moderne cure” dell’istituto, con altri malcapitati tra i sei e gli undici anni, afflitti da imperfezioni varie.

L’unico passatempo, in quella specie di carcere, era giocare a calcio nell’enorme terrazzo. Era un gioco maschio, cattivo, senza simmetrie o schemi, solo la voglia feroce di prevalere e di affermarsi. Nel gioco, dato l’ambiente, ci si avvaleva di supporti ortopedici tipo staffe o tripodi, parti integranti usate senza remore per la conquista della palla o per effettuare un tiro, con conseguenti traumi e bernoccoli. Al pianto della vittima arrivava lei, suor Maria Ermelinda, che sanciva la sospensione del gioco e la messa in punizione di tutti, in silenzio nel letto, anche a partire dalle tre del pomeriggio.

Era lei che stava sempre con noi, con fatica e risentimento, coadiuvata da anonimi inservienti comparsa. Aveva recepito in fretta il consiglio di applicare con noi una disciplina ferrea e, senza troppi scrupoli, elargiva sanzioni corporali per qualsiasi infrazione, con sequenze di colpi delle mani più spigolose che la storia ricordi.

 

Casadio Alessandro 02 (John Morgan)La legge della giungla

Io, in quei giorni, sopravvivevo di fede. Che non crollò quando i miei compagni cercarono di farmi credere, dall’alto della loro esperienza, che non avrei più rivisto i miei genitori. Quando poi seppero che avevo dei fratelli, diedero per dimostrato il loro teorema, tacciandomi di “gonzo”, soprannome che rimase a mia onta per il tempo che vi stetti. Tale soprannome scatena la gara tra i furbi a chi ti frega di più. Il primo a farne le spese fu il sacchetto di caramelle, che avevo in dotazione: improvvisamente sparito. Poi fu la volta del numero 81 di Tex La banda dei lupi, carognata delle carognate, essendo quello un pezzo unico appartenente alla collezione di famiglia. Non contenti di avermi svuotato la cassa, i miei compagni di sorte dovevano aver deciso di derubarmi anche a viso aperto ed essendomi rimaste solo le figurine Panini dei calciatori del Campionato 1966-67, ci provarono con quelle. Passi per Rivera, osannato artista del calcio, ma pur sempre del Milan, più indigesta la perdita di Anzolin, inviolabile portiere della magica Juve, ma la mossa che mi carpiva l’intera formazione titolare dei campioni d’Italia fu scopertamente fraudolenta. «Hai barato!», lo accusai immediatamente. Lui negò. «Ti ho visto benissimo!», lo incalzai. Continuò a negare. Non era il momento di appellarsi ad una qualche giustizia latitante, il discorso finiva lì: così a dieci anni e sei mesi, attaccandomi all’inferriata della finestra per conferire più forza al braccio e soprattutto per non ribaltarmi all’indietro, diedi il mio primo pugno a un essere vivente. De Chirico, il mio antagonista di gioco, più basso di almeno dieci centimetri per via della sua spina dorsale che prendeva tutte le traiettorie fuorché quella retta e perciò detto “Il gobbo”, mi fissò per un attimo, accusando il colpo. Poi se ne andò, abbandonando tutte le sue figurine per non farsi vedere piangere. Stetti a guardarlo allontanarsi, assaporando il mio potere di vita e di morte. Quella sera, già coricati nei letti nonostante la luce inesauribile del luglio filtrasse dalle persiane, il telegrafo del dormitorio riportò la notizia che Gonzo aveva mollato un pugno al Gobbo e la Befananon lo aveva beccato. Stavo risalendo posizioni nella piramide dell’eco-sistema.

 

Desaparecido

La vita, lì, era dura. Tutto era malanimo e sotterfugio. Nei miei trentatré giorni di detenzione, che sembrarono dieci anni, oltre ai furti tra noi, si verificarono anche la sparizione di un portafoglio di un medico, la ferita di una signora nel cortile della casa, bersagliata da un calcinaccio, e la sparizione di un bambino dal nostro reparto. Peccato che quel bambino fossi proprio io. Accadde che, dovendo andare in bagno, pur vergognandomi come sempre mi succedeva in quel periodo, chiesi aiuto ad una inserviente con gentilezza, come da protocollo. Caso volle che tale inserviente fosse appena smontata dal servizio e che, per non dover tornare indietro ai bagni, mi accompagnasse ad altri servizi sulla via dell’uscita. La storia dimostra che si dimenticò completamente di me, perché né tornò a prendermi di lì a poco, né disse ad alcuno di avermi accompagnato in quel bagno e né fu interpellata, allorquando incominciarono le mie ricerche, sapendola fuori servizio.

Tutto taceva intorno a me. Neanche una mosca da seguire con gli occhi per rompere la noia. Perché non veniva nessuno a prendermi? Cominciai a canticchiare per fami coraggio. Il canto si trasformò in lamento, in richiamo, in grido. E poi la paura: mi hanno abbandonato! Lo hanno fatto davvero! Per ore contemplai la maniglia della porta, sperando di vederla muovere. Qualsiasi rumore veniva da me colto come un segnale di salvezza, per poi riprecipitare nell’angoscia del nuovo silenzio. Mi ero sbagliato. La maniglia si mosse veramente. Qualcuno stava arrivando a salvarmi. Finalmente, io e il mondo avevamo un nuovo contatto… suor Maria Ermelinda.

Per un secondo, mi sembrò quasi bella. Forse per questo mi colse di sorpresa quello schiaffo, risuonando fragoroso sulla mia guancia sinistra e facendola arrossare in un baleno. Non ebbi nemmeno il tempo di balbettare una scusa, che anche l’altra guancia, senza merito evangelico da parte mia, si infiammò per la seconda sberla. Ormai l’angelo era diventato un mostro e menava fendenti che bruciavano sulla mia pelle nuda come frustate. Sapevo cosa voleva dire sentire male: avevo già provato tale esperienza, ma quelle sberle cattive avevano l’aggravante dell’ingiustizia, della crudeltà più pura. Alle 19.23, dopo più di nove ore dalla mia sparizione, dopo 26 colpi, ognuno dei quali lasciò un segno nel mio cuore, il mostro smise di infierire su di me, lasciando ad altre l’incarico di sollevarmi da quell’accidente di water. Fu in quegli attimi, probabilmente, che sperimentai un sentimento nuovo, comunemente chiamato odio. Avevo capito, contro ogni ragionevole dubbio, che il male esiste e che giustizia e vita non viaggiano sempre in perfetta armonia. Avevo un’arma in più per vivere.