Il lento allontanarsi del dharma

Bloccati dai desideri dell’io perdiamo di vista chi siamo veramente

di Antonia Tronti

studiosa di spiritualità cristiana e orientale

 

Tronti 01Tutto è bene

Tra le domande che emergono durante gli incontri che sono solita tenere sulla tradizione filosofico-spirituale indiana antica ce n’è una che torna spesso: qual è la posizione dell’India rispetto all’esistenza e all’azione del male?

Domanda che nasce probabilmente dallo sconcerto di non sentire quasi mai uscire la parola “male” dalla mia bocca. Mi chiedono: non ci parli mai del male: cosa dice l’India in proposito? Lo sconcerto solitamente cresce nel sentirsi rispondere che la tradizione indiana non afferma l’esistenza di un male sostanziale. Che il male negli antichi testi non compare come un’essenza o come un’entità, che non viene presentato come un principio opposto al bene, come un “altro”, semplicemente perché non è. E non è, semplicemente perché non possono esistere due principi distinti e opposti in una tradizione fondamentalmente non-duale. Tutto ciò che esiste è manifestazione del divino - che è bene - dunque tutto è bene.

Ma allora il male nel mondo? Da dove viene e che cos’è? Lo si può negare? E se non esiste, qual è la causa della sofferenza e del dolore intorno a noi e in noi?

Se infatti la tradizione indiana raramente parla del male, continuamente parla della sofferenza che gli esseri viventi vivono e patiscono su questa terra. Si interroga sulle sue cause. E cerca di formulare metodi e rimedi per tentare di attenuarla, o addirittura di eliminarla.

“Tutto è divino” e dunque buono. Ma anche “tutto è sofferenza”. Come conciliare queste due affermazioni, che troviamo così frequentemente negli antichi testi? Cosa intercorre tra la prima e la seconda? C’è un passaggio, un evento, una soglia che fa spostare il mondo dalla condizione di bene assoluto alla realtà della sofferenza?

 

Tronti 02 (Trey Ratcliff)I quarti della perfezione

Si racconta che il mondo, quando nasce, viene in essere con quattro quarti di perfezione. Perfetto come la sua Sorgente. Quattro quarti di dharma, ovvero piena armonia, equilibrio, ordine. Ma… Gradualmente i quattro quarti diventano tre, poi due, poi uno, ecc. Ovvero gradualmente il mondo si allontana dalla perfezione con cui è stato messo in essere. Man mano che si allontana dalla sua Origine, la dimentica, la tradisce, diventa sempre più dissimile da essa. Non perché si introduce nel mondo un principio estraneo, una volontà di male. Bensì per semplice dimenticanza di chi in questo mondo abita, per cecità, per ignoranza. Come un adulto tende a disidentificarsi dal suo corpo e dalle sue esperienze di bambino, per identificarsi invece con la sua forma adulta, così gli esseri umani tendono a dimenticare gli inizi della loro avventura sulla terra. E ciò che dimenticano principalmente è proprio ciò che caratterizza gli inizi della vita: la relazione con un “più grande” e la relazione con ciò e con chi è loro accanto. La sensibilità e la vulnerabilità del bambino, che dipende quasi totalmente da altri-da-sé e vive in stretto rapporto con tutto ciò che lo circonda, vengono ben presto sostituite dalla pretesa dell’adulto di essere il più possibile autosufficiente, indipendente, autonomo. Pretesa sempre illusoria, ma il più delle volte non percepita come tale. Origine di una messa al centro del proprio io che è la principale fonte della sofferenza e del “male”.

È in nome dell’io e di tutto ciò che l’io tende ad inglobare nella categoria del “mio” che l’individuo, persona o collettività, può diventare creatore di male e generare dolore. Per sé e per gli altri. Quando dimentica quell’Origine che lo ha messo nel mondo con il compito di mantenere in vita quei quattro quarti di armonia, che hanno bisogno del contributo di ciascun essere per essere preservati.

La multiforme mitologia indiana è piena di storie di conflitto tra princìpi che sembrano incarnare il bene e princìpi che sembrano incarnare il male. Il Ramayana, il Mahabharatae altre mille storie narrano di guerre e conflitti vari. Ma a ben guardare il principio “maligno” non è mai in essenza tale. Non nasce come maligno. Lo diventa. Lo diventa man mano che prende coscienza di sé, di ciò che può acquisire, o di ciò che è andato acquisendo. E man mano che comincia a lottare per difendere se Tronti 03stesso, i propri possessi, i propri confini. Solo in nome dell’io e del mio diventa “operatore di male”.

 

Non è mio, ma tutto è per me

Così nella saga epica del Ramayana, popolarissima in India, il principe Rama viene costretto all’esilio dai timori e dalle ambizioni di una delle regine, che desidera il regno per suo figlio Bharata e dunque lo sottrae al legittimo erede al trono. E il demone Ravana scatena una guerra tra l’isola di Sri Lanka e il territorio indiano su istigazione di sua sorella, il cui desiderio è stato respinto in nome della fedeltà di Rama alla sua sposa. E nel Mahabharata, altro poema epico, incentrato su una terribile e feroce guerra tra cugini che porta morte e distruzione, i confini tra i “cattivi” e i “buoni” non sono mai così netti da poter pienamente condannare gli uni ed esaltare gli altri. Ogni cattiva azione è frutto di quell’avidità che, come dice Draupadi, una delle protagoniste femminili della storia, «rovina il cuore degli uomini». Di tutti gli uomini. Che non alberga solo nel cuore di alcuni, ma è potenzialmente presente e pronta ad affacciarsi in ognuno. Tanto che il principe primogenito Yudhishthira, figlio del dharma stesso e dunque nato per difendere la giustizia, l’armonia, l’ordine, non esiterà, in un momento di accecamento, a perdere il regno, i sudditi, i fratelli e perfino sua moglie in una banale ma terribile partita a dadi che si ostina a voler vincere a tutti i costi. Questo per dirci che tutti, in alcuni momenti, diveniamo incapaci di “vedere”. Tutti possiamo divenire ciechi operatori di male, fautori di conflitti. Dimentichi di chi siamo in realtà, di chi siamo in origine e di chi siamo destinati ad essere. Tutti, quando ci incastriamo dentro i desideri dell’io.

Avevo imparato a dire un giorno: “Niente è mio, perché tutto è per me - come per qualsiasi altro essere con cui condivido questo spazio-mondo”. Ovvero quella stella nel cielo è per il mio sguardo, come anche per lo sguardo di chi chissà quanti esseri. Desiderare di possederla è infrazione dell’ordine del dharma. E sono tante le stelle - cose, persone, situazioni - che sono per me ma che non devo pretendere di fare mie. Dovremmo ricordarlo più spesso. Ogni volta che nelle nostre mani si insinua la tentazione di prendere per noi togliendo a qualcun altro. Siamo nella quarta epoca, da tempo. In cui solo un quarto di dharma sopravvive, e anch’esso va scemando. Dimentichi dell’Origine e dimentichi di essere parte di un tutto più grande. Sarebbe urgente un’inversione di rotta.

 

Segnaliamo il volume:

FILIPPO CARLI-ANTONIA TRONTI-MAURO BERGONZI

La danza della Vita (libro + dvd)

La Parola, Roma 2013, pp. 142