Francesco contro Superfranz

La lotta dell’uomo contro la pretesa di salvarsi da solo

di Fabrizio Zaccarini

maestro dei postulanti cappuccini a Santa Margherita Ligure

 

Zaccarini 01In odio i vizi del corpo

Ad esempio: potete immaginare san Francesco che in una cabina telefonica si toglie i panni dell’anonimato e mette quelli di SuperFranz l’invincibile per lottare contro i malvagi e mostruosi antieroi del male? Non potete? Se questa incapacità immaginativa non è piatta e pigra resistenza al cocktail di codici linguistici, allora complimenti!

Un supereroe è tale perché ha superpoteri che impegna contro supernemici che assolutamente non vogliono, né possono diventare buoni e devono perciò essere annientati. Francesco di superpoteri non ne ha, ha dei nemici, ma da annientare neppure uno. Quello che lo preoccupa più di tutti ha domicilio all’indirizzo di ognuno di noi. Nel capitolo XXII della Regola non bollata (FF 56-62) ammonisce così i suoi frati: «dobbiamo avere in odio il nostro corpo con i suoi vizi e peccati, poiché vivendo secondo la carne vuole toglierci l’amore del Signore nostro Gesù Cristo e la vita eterna e vuole mandare in perdizione se stesso con ogni cosa nell’inferno».

Questa frase ci impone una domanda: come molti prima e dopo di lui anche Francesco è rimasto impigliato nelle maglie strette della rete dualista che contrappone spirituale e materiale? Un’opposizione che di due dimensioni saldamente intrecciate nell’umano fa due mondi radicalmente antagonisti. Un’opposizione che ha nevrotizzato, lungo l’arco di troppi secoli, la vita e la fede di troppi uomini e donne. Al di là delle parole è il regime di iperpenitenza che Francesco sceglie per sé, fino a danneggiare gravemente l’integrità del proprio corpo, a vietarci di sostenere la sua totale libertà da questa rete. È importante riconoscerlo se non vogliamo più destoricizzare e supereroizzare la sua figura. Anche san Francesco ha pagato un certo debito alla teologia e alla spiritualità del suo tempo.

Ammesso questo per quanto riguarda i fatti sarà meglio però rileggere le parole! Rileggiamo e notiamo che Francesco non fa riferimento al corpo in quanto tale. Nel suo mirino c’è il corpo, è vero, ma un corpo che «vivendo secondo la carne vuole toglierci l’amore di Gesù Cristo». Non si parla dunque di ossa, pelle e ciccia di cui tutti siamo fatti, ma del corpo di chi guarda a sé, agli altri e al mondo, sganciandosi dal riferimento di origine e di destinazione che, più intimo a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi, è altro da noi ed è oltre questo mondo: l’amore di Gesù Cristo, cioè lo Spirito Santo che, in noi come in Dio, è relazione totale di autodonazione. Camminando sulla via dello sganciamento dallo Spirito, io e l’altro veniamo cosificati, ridotti ad osso che un cane rosicchia, non un tu cui l’io che vuole scoprire di essere volge gli occhi, le orecchie e il cuore.

 

Introdotti a sorella morte

Se torno al capitolo precedente il nostro, trovo una lode ed esortazione che Francesco affida ai frati perché la rivolgano a tutti. «Temete e onorate, lodate e benedite, ringraziate e adorate il Signore Dio onnipotente nella Trinità e nell’Unità, Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose» (FF 55). Dopo la lode a Dio, l’invito a fare «frutti degni di penitenza» perché, ed è la motivazione scabra e realistica che ci interessa, «presto moriremo». Mentre l’esortazione alla penitenza è coniugata nella seconda persona plurale (fate penitenza), la motivazione che la fonda è coniugata nella prima plurale (perché presto moriremo). I frati sono chiamati a proporre ad altri la penitenza, cioè una vita di perseverante conversione al Vangelo di Gesù, ma, essendo anch’essi penitenti, devono rimanere insieme ai destinatari dell’esortazione nell’ombra scomoda dell’ultimo nemico. E non c’è da temere, questo nemico non ha potuto trattenere per sé il corpo di Cristo, non terrà per sé nemmeno i nostri corpi, anzi, l’ultimo nemico la morte è diventata sorella!

Francesco ci propone una mossa coraggiosamente antieroica: deporre le armi, allearsi con la nostra morte e con ogni nostro nemico, per lottare, finalmente!, contro noi stessi e ogni pretesa autosalvifica. Se Gesù «chiamò amico il suo traditore e si offrì spontaneamente ai suoi crocifissori», la conclusione paradossale è che «sono, dunque, nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché, a motivo di ciò che essi ci infliggono, abbiamo la vita eterna». Si tratta di masochismo dolorista o di radicale disinteresse per questo mondo? Il fatto è che allo sguardo totale di Cristo si accede soltanto per la via dura del dono di sé, che, inevitabilmente, va declinata nei suoi tre movimenti: passione morte e resurrezione. Si dovrà restare fedeli a quest’amore anche di fronte all’attacco, apparentemente coeso, degli interessi di parte. Ma perché questo sia possibile bisogna aver strenuamente lottato contro il proprio male, rifiutandosi di proiettarlo fuori di sé, «poiché noi per colpa nostra siamo ignobili, miserevoli e contrari al bene, pronti invece e volonterosi al male».

 

Zaccarini 02Col cuore abitato da Dio

Secondo Romano Guardini credere «significa andare al Cristo, portarsi sulla posizione su cui Egli sta. Vedere con i suoi occhi. Misurare con i suoi criteri. […] Soltanto l’uomo che crede vede finalmente il mondo. Lo vede per quello che è, lo vede tutto intero e tutt’attorno». Le parole del teologo e la citazione giovannea con cui si chiude questo capitolo sono straordinariamente vicine: «Padre, quelli che mi hai dato, voglio che dove io sono siano anch’essi con me, perché contemplino la tua gloria nel tuo regno». Proseguo nella lettura sconfinando nel capitolo XXIII dove trovo una preghiera di ringraziamento e lode a Dio, per se stesso, per la creazione, per il ritorno del Salvatore nell’ultimo giorno. Preghiera tesa, ad abbracciare tutta la storia della salvezza, dalle prime alle ultime cose, e a coinvolgere tutti nella lode, «i fanciulli e i piccoli, i poveri e gli indigenti, i re e i principi, i lavoratori e i contadini, i servi e i padroni, tutte le vergini e le continenti e le maritate, i laici, uomini e donne, tutti i bambini, gli adolescenti, i giovani e i vecchi, i sani e gli ammalati, tutti i piccoli e i grandi e tutti i popoli, genti, razze e lingue, tutte le nazioni e tutti gli uomini d’ogni parte della terra, che sono e saranno» (FF 68). Le categorie nominate non sono ordinate gerarchicamente, ma colte in opposizioni polari di stampo più biblico che medievale, stanno l’una di fronte all’altra come un appello ad una relazione tesa alla totalità che sa accogliere le differenze. È lo sguardo, questo, di un uomo riconciliato, che abita un periodo storico ed è segnato dai suoi limiti, ma sa anche lasciarsi portare oltre.

Egli ci invita a fare dell’itinerario della sequela la nostra meta quotidiana, chiede di convertirci alla «santa carità che è Dio», di «costruire in noi un’abitazione e una dimora permanente» per Colui che della creazione è l’alfa e l’omega, l’inizio e il fine. Come? Prepariamoci ad essere terra accogliente per il seme della sua parola.