L’esistenza di ciascuno tocca gli altri in qualche misura, crea legami che coinvolgono poco o tanto. Nessuno dunque è invisibile: ciascuno partecipa al fluire del popolo a cui appartiene. La Chiesa è un popolo in cammino ed affonda le sue radici in un altro popolo: quello ebraico. Ringrazio Claudia Milani, che ha accettato di parlarci dell’appartenenza nel popolo ebraico: potremmo imparare da loro la capacità di accogliere e custodire le differenze senza tentare di livellarle, ma considerandole una ricchezza.

Barbara Bonfiglioli

Perché sono un ebreo

Il senso di appartenenza del popolo insito nell’ebraismo

di Claudia Milani
studiosa di ebraismo, impegnata nel dialogo ebraico-cristiano

Milani1Il legame che ti designa popolo

Per comprendere il legame che unisce il singolo ebreo alla propria comunità, occorre anzitutto partire da una definizione, tanto sintetica quanto evocativa: tradizionalmente, si considera ebreo il figlio di madre ebrea. Questa definizione, considerata in se stessa, non tiene conto del luogo geografico in cui l’ebreo nasce o vive, né dell’educazione che riceve, ma soltanto del dato di fatto oggettivo che consiste nell’appartenere ad un determinato popolo. Occorre immediatamente chiarire che l’ebraismo accetta - anche se non incentiva - le conversioni; rimane tuttavia vero che la stragrande maggioranza degli ebrei sono tali fin dalla nascita. Secondo alcuni maestri e tradizioni la discendenza ebraica matrilineare deve comunque essere accompagnata da un’educazione religiosa e da una prassi di vita regolata dalla halakhah (la precettistica ebraica), tuttavia le comunità ebraiche ortodosse non considerano l’osservanza religiosa sufficiente per definire ebreo un individuo.
Se è piuttosto facile fornire una definizione tradizionale di chi sia ebreo, diventa invece complesso inserire l’ebraismo dentro categorie precise: esso è certamente una religione, perché nasce e continua a fondarsi (anche) su presupposti religiosi; ma è anche una cultura, ossia una particolare prassi di vita, originata da una comprensione religiosa della storia, ma non più necessariamente ridotta ad essa; rappresenta infine l’appartenenza ad un popolo, come appare chiaro dalla definizione di ebreo che abbiamo dato sopra. Certamente non è possibile considerare gli ebrei come appartenenti ad una “razza”, poiché vi sono ebrei che nascono in diverse parti del mondo, hanno la pelle di colore differente, parlano diverse lingue, hanno usi, tradizioni e costumi a volte molto dissimili tra loro. Non è però neppure possibile leggere l’esperienza ebraica soltanto alla luce delle categorie religiose, dal momento che l’ebraismo assomma in sé i concetti di “popolo”, “cultura”, “religione” e insieme trascende ciascuno di essi.

Il principio fondante dell’appartenenza

A partire dalla definizione di ebreo che la tradizione ci fornisce, possiamo certamente affermare che l’appartenenza del singolo al “popolo ebraico”, cioè ad una forma di comunità, risulta fondamentale. Questa importanza è chiaramente riscontrabile a livello religioso, a partire ad esempio dal fatto che molti gesti liturgici richiedono - per essere compiuti - la presenza di un minian, ossia di dieci maschi (anche donne nelle comunità conservative e riformate), adulti secondo le regole religiose. Senza minian non è possibile, tra le altre cose, leggere pubblicamente la Torah, né recitare alcune preghiere come il qaddish, la santificazione del Nome di Dio che viene utilizzato anche per commemorare i defunti. Il fatto che liturgicamente l’appartenenza alla comunità rappresenti un dato così rilevante, non deve però lasciare intendere che nell’ebraismo la responsabilità personale sia dissolta in quella del gruppo. Anche grazie al fatto che la religione ebraica non conosce una forma di mediazione tra Dio e uomo, ciascuno è responsabile delle proprie azioni di fronte al Creatore, benché questa responsabilità spesso si estrinsechi in una forma comunitaria. Un esempio calzante di questa apparente dualità è rappresentato dal Giorno dell’Espiazione, Jom Kippur, e dalla confessione dei peccati commessi: gli ebrei, comunitariamente, confessano i propri peccati, dall’omicidio alla maldicenza. È evidente che la maggioranza dei penitenti che si battono il petto in sinagoga non sono omicidi, ma l’interezza della comunità confessa tutti i peccati possibili per presentarsi unita davanti al giudizio divino. Tale giudizio si indirizza però su ciascun singolo: ogni uomo viene cioè giudicato e perdonato singolarmente in ragione delle azioni che egli solo ha compiuto. Tra singoli e comunità si disegna dunque un rapporto dinamico, al cui interno il singolo ha necessariamente bisogno di appartenere alla comunità, ma non viene da essa riassorbito fino a perdere la propria identità.

Accogliere e custodire le differenze

Se questo è vero a livello religioso, non va però dimenticato che la definizione da cui siamo partiti - è ebreo il figlio di madre ebrea - non contiene riferimenti esplicitamente religiosi e dunque l’appartenenza ad una “comunità ebraica” può essere declinata anche in chiave laica. Come afferma lo scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua in L’elogio della normalità (Giuntina, Firenze 1991, pp. 154): «Nella definizione religiosa classica scopriamo un fatto sorprendente. L’ebreo secondo le regole non è identificato da alcun contenuto particolare. In quella definizione non si trova nemmeno una parola sul comportamento dell’ebreo, sui suoi pensieri, sulle principali regole di comportamento. Non c’è nessuna indicazione di patria o di lingua, né un qualche elemento di appartenenza alla comunità (come potrebbe essere la solidarietà nei confronti del popolo ebraico). La definizione è totalmente “nuda”. L’ebreo è in definitiva il figlio di madre ebrea; che il padre lo sia non ha importanza». Proprio a partire da questa definizione “aperta” - “nuda”, come la definisce Yehoshua - a cominciare dal XVIII secolo, con il movimento dell’Haskalah (l’Illuminismo ebraico), è stato avviato un ripensamento dell’identità ebraica, precedentemente definita solo in chiave religiosa, che rimettesse in discussione le categorie tradizionali di appartenenza all’ebraismo e dunque anche alla comunità ebraica. È stata così avviata una rilettura “laica” dell’appartenenza ebraica, che potremmo sintetizzare in una precisazione della definizione tradizionale: è ebreo il figlio di madre ebrea, anche se non osserva i precetti religiosi. Il rispetto dell’halakhah non è quindi condizione necessaria per sentirsi ed essere definiti ebrei e la “coscienza ebraica” si ridefinisce in termini non più soltanto religiosi. Come è facilmente intuibile, tra una definizione totalmente religiosa ed una perfettamente laica (quando non esplicitamente atea) dell’appartenenza ebraica, si collocano infinite possibilità intermedie e moltissime discussioni in seno all’ebraismo stesso. La varietà di proposte, che può talvolta lasciare sorpreso chi osserva l’ebraismo dall’esterno, è però indicativa di una caratteristica ebraica fondamentale: la capacità di accogliere e custodire le differenze senza tentare di livellarle, ma considerandole al contrario una ricchezza.