Abbiamo chiesto a Enrico Riparelli di aiutarci a capire come comportarci davanti ai simboli che sempre più incontriamo nel nostro quotidiano, ma che non sempre ci appartengono. Il simbolo lega ad un’identità e, nel contempo, segna una distinzione. Come coniugare la funzione aggregativa e la funzione selettiva del simbolo nelle nostre relazioni?

Barbara Bonfiglioli

 

 

Rubrica Religioni in dialogo 01 (Mauro Fochi)Espressioni del comune sentire

Culture e religioni tra “sim-bolico” e “dia-bolico”

 

di Enrico Riparelli

docente di Teologia interculturale all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Padova

 

La vocazione di unificare

La composita natura della condizione umana trova efficace espressione in quei complessi simbolici che incarnano quanto di più intimo e significativo è depositato in essa.

È noto come già nella sua stessa radice etimologica il simbolo racchiuda una valenza di segno di riconoscimento, di allegoria, anche di codice segreto. Ma non meno importante è l’osservazione che nei tempi antichi il simbolo corrispondeva concretamente a un oggetto diviso in due parti eguali fra ospite e ospitato, a riconoscimento del vincolo di ospitalità. Si può dunque concludere che la vocazione del simbolo è di unificare manifestando un profondo senso comune, di allacciare relazioni amalgamando gli esseri umani, di offrire una cornice identitaria che consolida ed esprime un sentire comunitario.

In un mondo come quello odierno, in cui le persone e le comunità intessono relazioni sempre più intense scambiando tanto beni economici che usi, costumi e credenze, nasce la questione di cosa accade allorché differenti sistemi simbolici vengono a contatto. Se il simbolo è certo idoneo a generare integrazione e dunque identità, non si deve minimizzare il fatto che l’atto di tracciare un confine identitario materializza allo stesso tempo anche una linea di demarcazione. Infatti dire identità tra appartenenti a una determinata tradizione culturale e religiosa implica il riconoscimento di una differenza rispetto a chi partecipa ad altre tradizioni. Il simbolo, proprio in quanto assume una funzione aggregativa, si rivela allo stesso tempo per sua natura anche selettivo. Se incarna il vincolo tra un determinato gruppo di persone, rappresenta però per lo “straniero” una soglia difficilmente permeabile. Basti richiamare i molti casi in cui proprio i simboli più peculiari delle diverse culture e religioni - crocifisso cristiano, velo islamico, turbante sikh, circoncisione, macellazione rituale - assurgono a motivo di aspro confronto tra chi li riconosce nelle vesti di ineludibili segni identitari e chi, all’opposto, ne nega il diritto di presenza in uno spazio pubblico o addirittura ne esige il divieto assoluto. Quel tanto temuto “scontro delle civiltà” sembra oggi prendere sostanza in un non meno emblematico scontro dei sistemi simbolici. Come comportarsi dinanzi a eventi sempre più frequenti come questi, che richiedono una pacata riflessione e un lucido giudizio da parte di tutti? A nostro parere è necessario tenere in considerazione quantomeno i seguenti due punti.

 

Rubrica Religioni in dialogo 02 (Franco Bertolani)Sempre in trasformazione

I simboli non sono affatto delle realtà naturali, dunque innate e concluse in se stesse, bensì tentativi culturali, vale a dire storici e sempre in trasformazione, di esprimere i valori principali di una determinata comunità. Ciò comporta, accanto alla loro forte valenza relazionale, allo stesso tempo anche una relatività in ordine ai valori che intendono promuovere: sono questi ultimi quell’assoluto permanente, universale, “naturale”, che è espresso per mezzo della finitudine storica, relativa, che caratterizza i simboli. È quindi necessario stabilire una giusta distanza rispetto allo strato “sensibile” dei simboli, il che non significa ripudio di quanto una tradizione culturale o religiosa ha offerto alle generazioni che si susseguono, ma assunzione di una lucida consapevolezza della differenza sostanziale tra il simbolo e quanto è simboleggiato, della caducità della mediazione espressiva in rapporto alla sostanza dei valori promossi.

Il fatto che i simboli rivestano un ruolo tanto di componente aggregativa che divisiva non deve né sorprendere né generare turbamento: il rapporto dialettico tra identità e differenza è connaturato alle relazioni umane. Osserva l’antropologo Ugo Fabietti che «la distinzione da un lato, l’identificazione e l’appartenenza dall’altro, sono di fatto gli aspetti opposti, ma complementari, di quel continuo processo di “costruzione di confini” che pare accompagnare l’intera storia umana». Può apparire paradossale, ma un simbolo a cui si chiedesse un’identità monolitica, immutabile, refrattaria alla differenza, invece di corrispondere alla sua vocazione “sim-bolica” si rivelerebbe fomentatore di discordia, di disunione, dunque in una veste “dia-bolica”.

 
Mutuo riconoscimento dei simboli

Le scienze sociali mettono oggi sempre più in luce la naturale permeabilità delle comunità umane. Anche nei confronti dei simboli si può attestare che la loro funzione aggregativa è bene esercitata solo allorché sia accompagnata da una sensibilità osmotica che permetta all’organismo comunitario di fare trasparire i «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra Aetate, 2) irradiati dalle altre tradizioni, e di donare a queste ultime la propria luce, la quale non può stare nascosta sotto il moggio della propria cultura o religione. In questo interscambio osmotico i simboli davvero vivono e si sviluppano, trovando compimento alla loro vocazione di richiamo del simbolo aggregativo per eccellenza, ossia di quel fondamentale umano che corrisponde alla fratellanza nell’umanità. Ogni sistema simbolico che non fosse orientato a tale vincolo antropologico anteriore e superiore sarebbe destinato a rivelarsi “dia-bolico”, dal momento che contraddirebbe la sua stessa natura di connessione ospitale, di unione nel rispetto delle differenze. Si tratterebbe di un simbolo intristito perché imploso su se stesso, idolatrato e strumentalizzato in funzione di legami tribali; non più di un simbolo custodito e amato quale espressione sacrale del legame fraterno tra gli uomini e dell’alleanza tra cielo e terra.

Il futuro delle religioni richiederà sempre più un mutuo riconoscimento dei loro simboli fondamentali. Ciò potrà avverarsi solo mediante una paziente opera di inter-traduzione, capace di equilibrare l’entusiasmo del dire la stessa cosa in lingue differenti (trasparenza relativa) e la consapevolezza che in ogni caso permarrà qualcosa di intraducibile (opacità relativa). Lontani dal furore iconoclasta che esige la rimozione dallo spazio pubblico di ogni espressione simbolica, siamo piuttosto chiamati a offrire ospitalità alle differenze espressive in una tensione inesausta tra appropriazione critica e distanziamento, condivisione fraterna e distinzione rappacificata. La storia degli uomini, infatti, osservava il filosofo Paul Ricoeur, sarà sempre più una «vasta spiegazione, dove ogni civiltà svilupperà la propria percezione del mondo nel confronto con le altre».

 

Dell’Autore segnaliamo il volume di prossima pubblicazione:

Itinerari filosofici per un dialogo interculturale. Paul Ricoeur, Raimon Panikkar, Bernhard Waldenfels
Edizioni Messaggero Padova, Padova 2014