Sono trascorsi ormai cinquant’anni dall’inizio del concilio Vaticano II, ed è il momento buono per un bilancio. MC ha presentato i vari documenti del Concilio, ora intende ritornare su quei documenti per verificare come hanno inciso e stanno incidendo nella vita ecclesiale. Andrea Grillo, esperto di liturgia, che già aveva presentato per noi la costituzione Sacrosanctum Concilium, ripercorre ora il cammino del rinnovamento nella liturgia della Chiesa.

Giuseppe De Carlo

Una liturgia riformata e riformatrice

La recezione della riforma liturgica deve avvicinare le persone all’esprienza del culto

di Andrea Grillo
docente di liturgia all’Istituto “Santa Giustina” di Padova e alla Facoltà teologica “Sant’Anselmo” di Roma

Grillo1Con la partecipazione di tutti

Nei decenni successivi a Sacrosanctum Concilium (SC) è cominciata una grande esperienza ecclesiale, preoccupata anzitutto di rendere possibile la “partecipazione attiva” di tutti all’unica azione rituale che qualifica la vita della Chiesa. Bisogna ricordare, infatti, che una delle conseguenze del ripensamento della liturgia proposto da SC è stata proprio l’assunzione delle “lingue nazionali” come forma espressiva ordinaria della preghiera rituale: il che significa un immediato investimento di numerosissime e diversissime “culture nazionali” nel processo di riforma della liturgia. Se tutti gli adattamenti debbono comunque ricevere il consenso della Sede Apostolica, resta il fatto che essi rompono la rigidità centralista con cui il concilio tridentino aveva imposto ovunque un’unica forma rituale. Ciò, evidentemente, è accaduto già subito dopo SC, ma ha avuto bisogno dei decenni successivi per tradursi nella carne e nel sangue delle comunità cristiane.
D’altra parte la scelta di preparare la Institutio generalis Messalis romani, già per il 1969, assunse per la celebrazione eucaristica decisioni su ciò che - a fortiori - sarebbe diventato normativo per tutti gli altri sacramenti, per i sacramentali, per l’Ufficio Divino e per l’Anno liturgico. Anche questo deve essere interpretato non come una sorta di “democratizzazione” della liturgia, ma come esigenza che scaturisce dalla stessa liturgia: se è vero che la partecipazione di tutti i battezzati è necessaria all’azione rituale, allora aprire tutti i tesori della mensa della parola e della mensa dell’eucaristia al popolo di Dio è qualcosa non di accidentale, ma di essenziale.

Alcuni problemi

Mentre il cammino della Riforma prosegue sia a livello universale, sia a livello nazionale, con il coinvolgimento di competenze ricche e articolate, si profilano anche, inevitabilmente, alcuni problemi:
- anzitutto la pretesa - talora sconsiderata - di dover procedere a riforme dei testi e dei gesti che si susseguano di generazione in generazione: questo è in qualche modo di ostacolo a quel processo di “iniziazione alla fede mediante i riti” che suppone la possibilità di un minimo di “comunione tra generazioni”, mediata appunto dal medesimo atto rituale;
- in modo opposto, rispetto a questa tendenza, il tentativo di rendere superflua e marginale la Riforma liturgica, ipotizzando un parallelismo rituale che mantenga i vecchi rituali vigenti accanto ai nuovi. In questo caso la pastorale della Chiesa, se non ha solidi criteri di orientamento, può smarrirsi e perdere il senso delle priorità, oltre che il senso della storia;
- un’adeguata articolazione tra centro e periferia non può semplicemente identificare il centro con il latino e la periferia con le lingue nazionali;
- infine, ma non da ultimo, il processo di attuazione della Riforma ha avuto di mira, all’inizio, il comprendere, poi ha assunto il partecipare, ma deve oggi dirigersi decisamente verso la acquisizione del “celebrare” come azione tipica di ogni battezzato. Senza questo passaggio delicato, la Riforma cadrebbe presto in una sorta di “analfabetismo di ritorno”.
Molto spesso abbiamo pensato che un aggiornamento della Chiesa, così come lo ha voluto il concilio Vaticano II, comportasse anche una riforma dei riti: che cioè alcune nuove evidenze, nuove idee, nuove consapevolezze, nuove scoperte teologiche, pretendessero dalla Chiesa un modo di celebrare il Dio di Gesù Cristo più coerente con questo nuovo orizzonte, più adatto e aggiornato e insieme più fedele ed autentico.
Ma che cosa significa l’aggiornamento di cui parla il Concilio? Proprio qui abbiamo ancora da pensare in una direzione diversa. La riforma della Chiesa, di cui il concilio Vaticano II è stato artefice, comincia con ciò che il culto liturgico fa maturare - in quanto “fons” - nella coscienza di fede ecclesiale. Il nuovo statuto della partecipazione al sacramento - nella sua identità di mediazione simbolico-rituale - rivela la “riforma liturgica” non anzitutto come necessità di modificare i riti, ma come capacità modificatrice che la celebrazione rituale riserva alla vita della Chiesa. La riscoperta della dimensione iniziatica del rito liturgico - con tutte le sue peculiarità di parola e di sacramento - costituisce perciò una “riserva di riforma” ancora largamente inesplorata. In tal senso allora la “riforma liturgica” significa non prima di tutto la riforma che la liturgia subisce (dalla Chiesa) nei propri riti, ma la riforma (della Chiesa) che la liturgia promuove con i propri riti. Per favorire questo, tuttavia, occorre maturare una nuova coscienza della natura di “fons” della liturgia e della coscienza “iniziatica” della partecipazione che essa pretende.

La generazione del dopo

A quarantacinque anni dall’inizio della Riforma sancita dalla Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium, cominciano a riflettere sistematicamente sulla liturgia quelle generazioni che non hanno conosciuto per esperienza personale il “regime liturgico” precedente, che non hanno mai celebrato una messa in latino, che non hanno mai visto e vissuto lo sfarzo e la fissità delle celebrazioni preconciliari. A queste generazioni di cristiani sembra che il riformatore non abbia pensato a sufficienza. O forse ha pensato soltanto a loro, ma senza potersi immedesimare davvero in loro.
Finché dovremo “spiegare” i simboli cristiani vorrà dire che essi non hanno trovato nuova vita e nuovo slancio e sono ancora spenti. La mancanza della necessaria immediatezza dell’esperienza del culto è uno dei grandi problemi che attende la Chiesa del terzo millennio. Per la prima volta, nel XX secolo, la liturgia è diventata oggetto di un interesse teologico diretto, immediato, quasi “vorace”. La sua natura di fons di tutta l’azione della Chiesa - portata alla luce con tanta sofferenza e pazienza dal lavoro, prima sotterraneo e poi alla luce del sole, del Movimento Liturgico - chiede oggi un salto di qualità, una nuova onesta semplicità, un rispetto meticoloso per il “dato” e per il “fenomeno” liturgico in quanto tale. Solo così la Riforma liturgica potrà essere non solo la Riforma che la Chiesa e i cristiani fanno della liturgia, ma anche - e soprattutto - la Riforma che la liturgia fa della Chiesa e dei cristiani.

Dell’Autore segnaliamo:
Riti che educano. I sette sacramenti
Cittadella, Assisi 2011, pp. 166