Ognuno di noi è un unicum nella sterminata massa di uomini e di donne che vivono e hanno vissuto sul pianeta terra. Anche tra i frati non ne trovi uno uguale all’altro, nonostante professino la stessa regola, vestano allo stesso modo e vivano nello stesso convento. Ma c’è stato un frate che, senza ombra di alcun dubbio, era più unicum di tutti gli altri. Il suo nome? Frate Apollinare, nome che i confratelli abbreviavano in “Pollinare” o che, più sbrigativamente, storpiavano in “Polo”.

Un altro unicum è stato padre Placido, ricordato qui dal poeta Guido Oldani.

Nazzareno Zanni

 

 

Rubrica in Convento 01 Apollinare 01 (Foto Archivio Provinciale)Fioretti cappuccini


Come frate Apollinare si svegliava di notte


Quando nel parlare frate Apollinare sperimentava il sacro fuoco della convinzione, come intercalare usava un’espressione non proprio elegante: «Porco boia!», tanto che da alcuni confratelli, senza però che lui lo sapesse, era chiamato semplicemente “Porco boia”.

Frate Apollinare era un frate tra il sovrappeso e il corpulento, con una falcata lenta, ampia e pesante, tanto da far tremare il pavimento. Portava un paio di occhiali, che si erano come affondati tra le pieghe del volto, sul quale spiccava la bocca, sempre atteggiata al sorriso. Non un sorriso fresco di giornata, ma fossilizzato per le tante volte che, per circostanze o per cortesia, aveva dovuto abbozzarlo. Non era assolutamente portato a usare le mani per fare anche il più piccolo lavoro, ad eccezione di quello di tagliarsi le unghie delle carnose dita delle mani, ma non quelle dei piedi, ormai non più alla sua portata, perché troppo distanti.

Rubrica in Convento 02 Apollinare 02 (Disegno di Cesare Giorgi)Appena ordinato presbitero, i superiori gli avevano detto: «Siccome non sai fare altro, ti manderemo a Roma per lo studio della filosofia». Così aveva studiato filosofia a Roma, all’Università Gregoriana, e del filosofo aveva davvero l’aspetto meditabondo. Un suo compagno di studi ricordava che, per tutto il giorno in cui aveva affrontato la prova dell’esame finale, frate Apollinare lo aveva sfiancato nel ripetergli continuamente: «Mi hanno fatto tre domande: alla prima, bene bene; alla seconda, così così; alla terza… non so. Di’, come sarò andato?». Per tutta la notte frate Apollinare non aveva chiuso occhio, tormentato da questo interrogativo, ed ebbe pace soltanto quando gli fu comunicato il risultato positivo.

Ritornato in Provincia, nella sua Romagna, fu inviato a Lugo come maestro e professore degli studenti di filosofia - così erano chiamati i giovani frati che frequentavano il corso di liceo classico in preparazione alla Teologia. Non era certo un insegnante nato, perché i ragionamenti che egli mulinava nella sua testa non sempre risultavano comprensibili quando doveva esporli in cattedra. Forse nella sua mente tutto risultava logico e chiaro, pur se è lecito dubitarne, ma non altrettanto chiari apparivano i suoi pensieri quando si trovava a comunicarli agli alunni: troppi concetti si accavallavano uno sopra l’altro e uno dentro l’altro, ma nessuno studente osava interromperlo per chiedere una delucidazione, perché era noto che la nuova “spiegazione” era una perfetta ripetizione di quella già formulata, e il filosofo professore si sarebbe adombrato per non essere stato compreso.

Come passatempo, frate Apollinare coltivava lo studio della morale. Possedeva un libro di quelli che si proponevano di coniugare il diritto canonico con l’agire umano per formulare un giudizio morale. Erano tante le pagine che gli interessavano che a ogni argomento - in pratica tutti - collocava una cartolina come segnalibro. Con il risultato che ormai si poteva definire ciò che leggeva non un libro, ma un voluminoso pacco di cartoline intervallate dalle pagine di un libro. Con tutto quel po’ po’ di roba si aggirava per i corridoi rimuginando i suoi complicati pensieri e gestendo con se stesso, forse per meglio convincersi di quello che stava pensando. Era pure noto che, quando parlava con qualcuno, altro era quello che frullava in testa, e altro era ciò che usciva dalla sua bocca. Tanto che, qualora ponesse una domanda, la stessa domanda la ripeteva più volte nonostante che l’interlocutore vi avesse già risposto anch’egli più volte.

Rubrica in Convento 03 Apollinare 03 (Disegno di Cesare Giorgi)Un giorno, in una delle sue consuete camminate lungo i corridoi dello studentato, mentre teneva in mano il suo libro con un dito infilato tra le pagine per non perdere il segno di quanto stava leggendo, incontrò uno studente, di nome frate Agnello, un giovane di gradevole aspetto, con una barba appena accennata che gli rigava la guancia e il mento. Si fermò e lo chiamò. Si appoggiarono tutti e due al davanzale di una finestra che si apriva verso l’orto. Lo studente non parlava, interrogandosi sul motivo di quella fermata, ben sapendo che frate Apollinare era incline a un atteggiamento di sospetto e che spesso la sua immaginazione lo proiettava in un mondo che ben poco aveva a che fare con la realtà. Finalmente frate Apollinare aprì la bocca: «Di’, Agnello, ti voglio fare una domanda. Dormi tu alla notte?». «Padre Pollinare, appena mi appoggio sul letto mi addormento come un sasso e dormo senza svegliarmi fino al mattino. E dormirei ancora!», rispose lo studente. Frate Apollinare stette un momento in silenzio, mulinando i suoi pensieri. Poi riprese: «Di’, Agnello, voglio farti una domanda. Tu dormi alla notte?». Frate Agnello sapeva molto bene che non bisognava darla a vedere che quella domanda era già stata fatta e che già era stata data la risposta. Dovette quindi ripetere il medesimo concetto, seppure con parole un po’ diverse: «Padre Pollinare, dormo come un ghiro in letargo!». Anche questa volte frate Apollinare non fece alcun commento. Ci ragionò sopra, o almeno così parve allo studente. Ma poco dopo di nuovo ripeté la domanda: «Di’, Agnellone, voglio chiederti una cosa. Tu dormi alla notte?». Frate Agnello non sapeva più che cosa rispondere, come sfiancato dall’incalzare di quella domanda, e dovette dar fondo a tutta la sua fantasia per ribadire la medesima cosa con parole differenti: «Padre Pollinare, appena spengo la luce sono già addormentato e nemmeno una cannonata mi potrebbe svegliare!». Pure questa volta frate Apollinare non rispose subito, ma si mise a pensare, muovendo la mandibola come una macina da mulino come se questa lo aiutasse a macinare le idee. Il silenzio non durò a lungo. Frate Agnello si aspettava che di nuovo frate Apollinare gli rivolgesse ancora una volta la domanda, perché sapeva bene che l’interlocutore filosofo vagava nel cielo dei suoi pensieri, e che non era ancora giunto a una conclusione. Questa volta invece dalla sua bocca uscirono parole diverse: «Buon segno! Buon segno!». Pausa. Poi: «Vuol dire che sei… in stato di grazia di Dio». Altra pausa e poi: «Io invece, porco boia, mi sveglio ogni cinque minuti!».

Il lettore non tragga conclusioni improprie e… logiche, anche se la tentazione è forte. Erano i pensieri filosofici e morali a disturbare il sonno notturno di frate Apollinare, che non possedeva la logica di un Platone o di un Aristotele. Non altro! Qualsiasi accostamento diverso è da considerarsi precipitoso e completamente fuorviante.